Salina (foto GC)
Dopo Milazzo, l’arcipelago delle Eolie spalanca le porte di un mondo turbato dall’incoscienza fragorosa dell’uomo. Da aliscafi e navi, dall’inquinamento acustico e del mare. Così la modernità si fa barbarica e violenta la natura, la sua ricchezza: il mare ancora mare, l’aria ancora pulita, il vento e il silenzio del Tirreno con la loro profondità misteriosa.
In queste isole, dichiarate patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 2000, la terra geme ancora, i vulcani sono attivi, e il loro richiamarsi a vicenda da lontano – sagome e corpi che traspaiono da un’età senza tempo – le rende irraggiungibili e vicine. Come il sogno.
Salina, modella da lontano i seni di una terra palpitante, vergine che riposa nelle acque, ristorandosi dalla lunga fatica del partorire se stessa. Anello e cerchio di acqua, di fuoco e di cielo in cui solo l’uomo è fuori posto. Ma se hai l’ardire e la vergogna di attraversarla, o di sfiorarla appena, sai che ne infrangi l’integrità, il suo essere schiva e taciturna.
Qui la natura celebra se stessa con quei due rilievi vulcanici – la Fossa delle Felci e il Monte dei Porri – che si ergono dal mare a prova dell’esistenza di una Venere subacquea dormiente. Supina e sublime. Qui il regista Michael Radford ha girato le scene del film Il postino, ispirato a Il postino di Neruda (Ardiente paciencia), del cileno Antonio Skármeta e messo in scena con la bravura indimenticabile di Massimo Troisi, Philippe Noiret e Maria Grazia Cucinotta. E qui decine di migliaia di turisti decidono di trascorrere le loro vacanze, attratti dal fascino di questa terra in parte ancora inesplorata, con i suoi strapiombi irraggiungibili, la sua macchia mediterranea, i suoi sentieri faticosi e millenari, la sua aria e i suoi suoni unici.
Non bastano pochi giorni per esplorarla tutta, quest’isola violata e offesa, ferita nella sua bellezza e nella sacralità del suo silenzio. A suo conforto forse si può dire che è meno invasa, rispetto alle altre isole consorelle, dal turismo di massa e rumoroso. E non a torto perché il suo paesaggio è più immediato e fruibile e la sua storia, discreta e celata dentro gli anfratti e le pieghe delle sue rocce e del suo verde, dentro i suoi sapori, i suoi odori e suoni e silenzi, svela improvvise sorprese, girando un angolo di mulattiera, salendo per un pendìo, ascoltando la lontananza del tempo.
Questa è un’isola millenaria. Perla tra le perle nere della Sicilia. Le sue acque e i suoi sentieri sono stati solcati dall’uomo da tempi immemorabili. Salina fu abitata nell’età del bronzo da popolazioni che si erano insediate lungo i pendii delle sue rocce vulcaniche. Villaggi di capanne e pietra lavica, come a Portella. Non la Portella di Sicilia, ma quella di Salina, anche questa volta contraddistinta dalla presenza della Ginestra, dai suoi fiori gialli, dal loro profumo inconfondibile.
Il villaggio di Portella, scoperto nel 1954, risale alla metà del secondo millennio avanti Cristo, quando la cultura milazzese, di origine siciliana, interessava l’intero arcipelago. Gli oggetti rinvenuti in questo villaggio, rimasto praticamente intatto dopo il suo abbandono, sono custoditi al museo civico di Lingua e al museo archeologico regionale di Lipari. Un luogo posto a difesa dell’integrità dell’isola, fatto da capanne costruite per metà al di sotto della superficie del pendio montuoso e per l’altra metà con coperture coniche di canne e arbusti, tra gli alberi, con i quali si confondevano rendendosi invisibili. La struttura portante del tetto è fatta con rami di ginestra che serviva come fasciame della stessa copertura grazie a un sistema di pali posti tra il pietrame lungo la circonferenza della costruzione. Vi si accedeva attraverso una porta sovrastata forse da un architrave di pietra lavica, oppure da tronchi di ginestra.
All’interno, bene arredato, una famiglia svolgeva le sue attività quotidiane, utilizzando anche gli spazi all’aperto, assieme ad altre famiglie vicine. Questa forma di socializzazione, in modi diversi comune alle popolazioni dell’arcipelago eolico, si mantiene ai nostri giorni mediante l’utilizzo degli spazi dei bagli delle case, costruite negli ultimi secoli sempre più vicine al mare, avendo perduto le loro posizioni difensive nei secoli delle incursioni corsare.
A Salina si possono ancora apprezzare i ruderi di una antica fabbrica romana per la salagione del pesce, risalente all’epoca della decadenza. Fatto che denota una millenaria attività dell’isola: quella della produzione del sale, attraverso le saline. La più famosa è quella di Lingua ancora oggi contraddistinta da un laghetto.
Un elemento caratteristico delle abitazioni è la presenza nel ‘bagghiu’ di un certo numero di pilastri cilindrici, leggermente meno estesi in circonferenza nelle parti più alte. Comunemente denominate “pulera”, queste colonne, di solito in numero di due tre o quattro, sono deliminate alla base da lunghi sedili realizzati in malta e rivestiti con maioliche policromate (“bisoli”). Sulle “pulera” poggia un soffitto a terrazza fatto con travi di legno, tavole e canne e arricchito spesso da pergole. La varietà dei colori interessa anche l’aspetto delle case, quasi sempre bianche (per respingere i raggi solari nella stagione estiva) e con le aperture segnate da colori vivi, per lo più il celeste, o l’azzurro intenso. Le case hanno talvolta un piccolo “giardino” alle spalle dove è racchiuso un arancio o un limone. Più frequentemente vi si coltiva un orto.
Ma andare a Salina, come del resto in tutte le altre isole della Sicilia, significa assaggiare i piatti a base di capperi, e il famoso vino della malvasia. Indici di un mondo prezioso fatto di piccole cose, di piccoli piaceri.
Giuseppe Casarrubea
Un frammento del film Il postino, girato a Salina: