È un pomeriggio come tutti gli altri al Centro di Studi Strategici; rimango un po’ più del solito, fino alla chiusura, le ore 17.00. Uscendo, sulla porta, incontro un giovane ricercatore del Centro; lui non parla bene inglese e io non parlo bene arabo ma caspico dalle sue parole entusiaste: “Come in Egitto, come in Egitto, c’è una grande manifestazione a Duār Dakhliyya, è tutto bloccato!”. Dubbiosa e un po’ preoccupata mi avvio verso casa, un po’ sollevata dal fatto di abitare a poca distanza dall’università e lontano dal luogo indicato. Una volta a casa Twitter e una diretta in streaming dalla piazza mi informeranno del resto.
Il sit-in, organizzato da diversi gruppi di opposizione, da studenti di sinistra e da studenti islamici, ha un’anima composita. Sono in centinaia, la maggior parte di loro sono ragazzi fra i venti e i trent’anni, molti non seguono nessun allineamento politico, altri sono della Fratellanza Musulmana, altri ancora sono cristiani. Sono attrezzati con tende e viveri, l’intenzione è di trascorrere la notte lì, di rimanere fino a quando le loro voci non verranno ascoltate, come piazza Taḥrir. Quella dove si sono ritrovati loro si chiama piazza Jamal Abd al-Nasser, ma è meglio conosciuto come Duār Dakhliyya, un’intersezione vitale della capitale davanti al Ministero dell’Interno (dakhliyya vuol dire, infatti, “interno”). Le domande non sono cambiate: riforme politiche, emendamenti costituzionali, un governo formato dalla maggioranza parlamentare eletta con una nuova legge elettorale, ridurre l’asfissiante presenza dei Servizi di Sicurezza nella società, un Senato eletto e non di domina regia, interventi immediati per affrontare la crisi economica (il tasso di inflazione nel mese di febbraio 2011 ha toccato la punta del 4.4 per cento), lotta alla corruzione.
Il pomeriggio è iniziato tranquillamente con la polizia che distribuiva bottiglie d’acqua e i ragazzi che intonavano slogan al ritmo di musica e rilasciavano dichiarazioni per la stampa presente. In tanti sono passati per Dakhliyya quel pomeriggio, anche solo per la curiosità di vedere di persona l’iniziativa. I commenti degli analisti non tardano ad arrivare. Il Dr. Mohammad Al-Masri a poche ore dall’inizio del sit-in dichiara dalla piazza al Jordan Times: “Questi giovani ci stanno praticamente dicendo- Abbiamo raggiunto un livello di maturità tale da essere in grado di avere un governo eletto-”. “Hanno oltrepassato molte linee rosse dimostrando maturità politica” aggiunge poi al giornalista che raccoglie la sua testimonianza.1
Il bilancio del secondo giorno è diverso. Il 25 marzo verrà ricordato per lungo tempo come uno strappo forte e pesante nella società civile giordana. Decine di feriti e un morto negli scontri violenti che mettono fine alla protesta: Dakhliyya viene sgombrata dopo trenta ore di resistenza. Ottantatre poliziotti e settantasette civili sono rimasti feriti, ventuno persone arrestate, un’inchiesta è stata aperta per capire la dinamica dei fatti e identificare i soggetti violenti.2
Le conseguenze dell’avvenimento sono rilevanti poiché accentuano e risvegliano tensioni latenti nella società. La risultante più diretta riguarda la commissione per le riforme. Sedici membri della Commissione Nazionale per il Dialogo, in seguito agli episodi sopra descritti, hanno annunciato le proprie dimissioni. In discussione è il modo ambiguo in cui il governo ha gestito la situazione, dalle dichiarazioni del Premier al comportamento della Gendarmeria.
Irrimediabilmente lesa la famiglia di Khairi Saad Jamil, un uomo di cinquantasette anni che, secondo le dichiarazioni dei parenti, si era recato a Dakhliyya per assicurarsi che il figlio ventenne, un partecipante alla manifestazione, stesse bene. Secondo fonti ufficiali l’uomo sarebbe morto in seguito ad un attacco cardiaco all’ospedale. Secondo i familiari, ma lo si vede anche dai video amatoriali dell’accaduto, l’uomo è stato percosso dalle forze dell’ordine che, intervenute in tenuta da sommossa, hanno sgombrato la piazza. Secondo una fonte medica che ha esaminato il corpo, l’uomo aveva ricevuto un colpo violento al petto e aveva i denti rotti.
Una delle più pericolose conseguenze intervenute dopo l’escalation di venerdì è stato il crearsi di un’atmosfera di sospetto e mancanza di fiducia fra le istituzioni e la gente. La palese alterazione dei fatti proposta dal governo ha lasciato basite molte fasce di popolazione che, solitamente, non si interessano di politica e si affidano fiduciosamente alla guida delle istituzioni. Video amatoriali della protesta postati su YouTube, foto, live-streaming, sono tutte testimonianze fedeli e obiettive. I manifestanti che si riparano sotto le tende per proteggersi dalla pioggia di pietre, ragazzi che lanciano sassi contro gli Shabāb da edifici in costruzione che sarebbero dovuti essere stati messi in sicurezza, forze dell’ordine che picchiano violentemente con i manganelli chiunque capiti sotto tiro, il video dell’accanirsi dei poliziotti su un corpo a terra, l’uomo che è morto. Video che dopo qualche ora non era più visionabile perché ritirato dalla condivisione on-line. Così come il live streaming degli Shabāb, dal primo pomeriggio fino a tarda notte, poi ripreso la mattina del 25. Nient’altro che ragazzi armati di computer, blog, social network, musica, canzoni e la propria voce per urlare al mondo la loro voglia di cambiamento.
Ho seguito la diretta on-line per diverse ore e l’atmosfera che si percepiva era carica di entusiasmo e “voglia di esserci”. Poi però sono arrivati gli Altri. I Lealisti, a loro modo di vedere. Prima gli insulti, pesanti e carichi di disprezzo, poi dato che non sortivano nessun effetto, sono arrivate le pietre. La reazione degli Shabāb, inaspettata quanto eroica, è stata quella di rimanere passivi agli attacchi. L’unica arma ad ogni carica di pietre era intonare “Salmiyeh! Salmiyeh! Salmiyeh!”. Pacifico. Pacifico. Pacifico. Per tutta la notte. “Baltajeyeh!” gridano gli Shabāb: “Teppisti!”. La polizia regolare, fino alla mattina del 25 ha formato un cordone di protezione per proteggere i ragazzi e per dividerli da chi li attaccava. I ragazzi infatti sono contenti del loro comportamento, rimangono in prima fila nonostante le pietre. D’altra parte però nessun altro schieramento di polizia interviene attivamente per bloccare i provocatori. Poi, infatti, la situazione cambia, non è ben chiara la dinamica ma arriva la Gendarmeria in tenuta da sommossa con gli idranti e i manganelli. La tensione era indubbiamente al limite e anche fra gli Shabāb, dopo una notte di attacchi subiti, diverse persone hanno cominciato a mandare indietro le pietre che arrivavano. Le due fazioni dopo tante ore non erano più controllabili e le forze dell’ordine hanno sgombrato la piazza con le modalità e le conseguenze di feriti e morti che abbiamo descritto.
La sera del 25 marzo, le parole del Primo Ministro Bakhit, che si rivolge alla nazione attraverso la televisione nazionale, con un discorso di sessanta minuti, rimbombano accusatorie come tuoni. La polizia è dovuta intervenire per dividere le due fazioni, dichiara, e non ha potuto evitare di sgombrare la piazza quando la situazione è degenerata. È il Movimento Islamico il responsabile di tutto, esso è manovrato dai leader della Fratellanza Musulmana in Egitto e in Siria e vogliono destabilizzare il Paese. Questa la ricostruzione dei fatti del governo. Le accuse verso i teppisti che hanno attaccato i manifestanti arrivano in un secondo momento, con meno eco. Ma lo scambio d’accuse è reciproco, i manifestanti incolpano il governo della deviazione violenta che la protesta ha subito il secondo giorno.3
Questa posizione, insieme alla gestione stessa degli scontri, contribuirà a creare una profonda spaccatura nella società. Il Movimento islamico è sul banco degli imputati e, di conseguenza i Palestinesi che ne affollano le fila. Si punta il dito contro un nemico che è interno ma prende gli ordini dall’estero. Dall’altra parte le forze di sicurezza che la notte del 25 marzo lasciano che i lealisti blocchino le strade per ballare sulle macchine e inneggiare al re, indicano chiaramente quale è il loro schieramento. L’incredulità che la situazione crea è l’immaturità politica di una mossa simile, sia per il cammino di riforme già iniziato, sia per le pericolose conseguenze che potrebbero derivare da una guerra civile. Si perché di questo si è parlato in quei giorni. I lealisti quella notte sono arrivati da tutto il Paese solo con l’intenzione di attaccare i riformisti. Un comportamento pericoloso quanto tribale. Per giorni, le strade della capitale sono state percorse da piccole carovane di macchine o ancora peggio di minibus con i ragazzi sopra il tetto, o appesi fuori dai finestrini, che brandivano spade, pistole, bandiere e kūffiye rosse. La lealtà al re prima di tutto. Senza ascoltare le ragioni di nessuno. Nemmeno quelle del re che da mesi ormai, si prodiga per accelerare il processo di riforme.
Ad una settimana dal loro esordio, l’unità degli Shabāb24Marzo inizia a mostrare le prime incrinature. Il movimento è un composito puzzle di attivisti di sinistra, del movimento islamico, nazionalisti, associazioni della società civile, studenti e giovani senza una particolare affiliazione politica. Questo incastro di correnti però, forse complice la traumatica prima presentazione in società, perde ben presto il collante e i pezzi del quadro si iniziano a disperdere. Due le fazioni che per prime si dissociano dal partecipare al sit-in di protesta previsto per venerdì 1° aprile a Ra’s al-Ayn: il settore giovane del partito Wiḥda e il gruppo dei Jayeen (letteralmente “stiamo arrivando”). Il partito Wiḥda rimane comunque sotto l’ombrello degli Shabāb ma i Jayeen si staccano dal movimento, perché troppo controllato dal Movimento Islamico, dicono. In particolare i punti di attrito riguardano alcune posizioni espresse sulle riforme, emerse proprio durante il sit-in. Gli slogan pronunciati al microfono che, secondo alcuni, era stato monopolizzato dal Movimento Islamico, hanno creato dei malumori per quanto riguarda per esempio la legge elettorale. Diverse componenti della manifestazione non si sono sentite rappresentate da alcuni slogan intonati ai microfoni. Il Movimento Islamico ha proposto infatti di basare la Legge elettorale sul principio della densità di popolazione, criterio sgradito a molti perché favorirebbe la popolazione palestinese che è la maggioranza demografica del Paese. L’altra problematica emersa è la scarsa organizzazione fra i vertici e le varie ramificazioni del gruppo, che avrebbe portato alcuni a non essere informati neanche del sit-in previsto per il venerdì, motivo per cui hanno deciso di non partecipare.4
Il messaggio principale della manifestazione organizzata dagli Shabāb è stato ribadire la loro volontà di ottenere le riforme rimanendo sotto la legittima guida della dinastia hashemita, senza creare fratture societarie che possano minare l’unità nazionale. Le misure di sicurezza, questa volta ferree, hanno protetto i manifestanti che però hanno deciso di sgombrare la protesta quattro ore prima della fine prevista a causa del previsto arrivo di numerosi contro-riformisti potenzialmente pericolosi.5
“Gli Shabāb 24 Marzo sono una nuova esperienza”, mi dice il Dr. Mohammad Al-Masri durante l’intervista “ma è presto per sapere fino a che punto sarà vincente.” Le loro divisioni interne e la carta del Divide et Impera giocata dal governo in occasione degli scontri hanno funzionato. L’importanza del Movimento del 24 marzo, secondo Al-Masri, è che ha rappresentato un punto di svolta per le proteste in Giordania: la voglia di ripetere l’avventura egiziana, attraverso i social network, senza rigide affiliazioni politiche come, invece, erano state le manifestazioni a Downtown fino a quel momento.
Ragazzi, studenti, attivisti, curiosi e veterani dell’impegno politico per dimostrare che il bisogno di riforme è di tutti e, le differenze reciproche si possono superare per far sentire, più alta, la voce più importante: democrazia.
Un sit-in aperto a tutti coloro che sono accomunati dalla volontà delle riforme.