Quant’è facile rifugiarsi nell’utopia più astratta quando la concretezza che ci circonda diventa troppo spessa da attraversare? Soprattutto se si tira in ballo la nera signora che incombe su di noi perseguitandoci dal mattino alla sera, la Crisi. Viviamo in un’epoca di crisi, in tempi di crisi c’è bisogno di ritrovare i veri valori, la crisi non è solo materiale ma anche spirituale, morale… Le parole sommergono i fatti, legittimate dalla circostanza che l’occasione per risuonare quest’anno è venuta proprio dalla fiera della parola per eccellenza. L’idea portante del XXVII Salone Internazionale del Libro è stata un coacervo di buoni propositi, sentimenti puri e spirito positivo, il tutto sintetizzato nel concetto più difficilmente sfiorabile dall’uomo nel corso di tutti questi secoli di speculazioni filosofiche e rompicapo quotidiani: il Bene. C’è chi sostiene che non esista il relativismo di valori e che il bene e il male pervadano il mondo in senso assoluto (parole di Susanna Tamaro, non a caso madrina di questa edizione del Salone); ma quello che voglio fare io è sfondare la barriera di assolutismo tirannico che pone un freno agli slanci individuali verso la ricerca di una forma ridotta del sommo bene, ovvero il benessere.
Ho sempre vissuto il Salone del Libro come un mezzo per purificarmi dalle intossicazioni di un anno di smog e negatività, come se ogni passo in mezzo alla cultura e ai colori mi aiutasse a lasciare dietro di me dei residui sgradevoli. Ebbene quello che voglio raccontare è il mio bene-benessere personale ricavato dal percorso che ho deciso di seguire all’interno di una manifestazione sempre e comunque brillante malgrado qualche parvenza di pretenziosità. Non parlerò quindi della presenza decisamente sostanziosa e ben poco spirituale dello Stato della Città del Vaticano come Paese ospite, ma andrò dritta al sodo degli elementi positivi ricavati da alcuni incontri cui ho assistito con grande piacere.
A cominciare dall’eclettico Stefano Benni, che ha presentato il suo ultimo romanzo, Pantera, mondo come sempre straordinario creato dal perfetto amalgama di ambienti surreali e personaggi delineati alla perfezione e destinati a rimanere indelebili nella mente del lettore. E stavolta, per facilitare e rendere più accattivante l’assorbimento delle immagini attraverso gli occhi, Benni si è servito dell’aiuto del disegnatore Luca Ralli, che ha dato forma alla sinuosità seducente e aggressiva della protagonista, una femme fatale mangiatrice di uomini e campionessa al biliardo. Personaggio intrigante che sfida la maschilità che la circonda scrutandola con i suoi occhi verdi, per poi forse sciogliersi quando incontrerà l’unico uomo che davvero le farà fare i conti con se stessa, nella partita decisiva.
Dalla fantasia pura si passa al racconto di dinamiche più che mai quotidiane: il rapporto padre-figlio nelle pagine di Michele Serra e Francesco Piccolo, messi a confronto dall’esuberanza di Claudio Bisio. Gli sdraiati sono i figli adolescenti che Serra racconta attraverso occhi paterni e confusi, occhi che guardano senza poter toccare, osservano di nascosto mantenendo le distanze; occhi di chi non riconosce più quel ragazzo con cui si condivide una casa e una vita, senza accorgersi che forse l’alienazione non è unilaterale ma coinvolge entrambe le prospettive. Una situazione di irrigidimento che si ritrova a dialogare con il tuffo nella storia fatto da Piccolo con Il desiderio di essere come tutti, racconto autobiografico dell’avvicinamento di un ragazzino alle ideologie politiche, a partire da quel settantottesimo minuto di Germania Ovest – Germania Est rievocato come il confronto-scontro tra polarità che richiamavano chi assisteva a una presa di posizione.
E di autobiografia si è parlato anche con Ferzan Ozpetek, che nel suo primo libro, Rosso Istanbul, ha fatto emergere dalla memoria del cuore la sua città natale e tutte le figure, soprattutto femminili e tutte stravaganti, che l’hanno animata, a partire dall’affezionatissima madre. Una scelta, quella di mettere a nudo una parte della sua intimità, spinta dal coraggio finalmente trovato di raccontare la propria storia in modo diretto, senza il filtro della finzione cinematografica, seppur molto spesso ispirata a fatti e persone in tutto e per tutto reali. Di donne si parla anche tra Dacia Maraini e Concita De Gregorio, due emblemi di un diverso modo di vivere la femminilità, ma entrambe appassionate nel ritrarre la figura di Chiara d’Assisi, donna, prima che santa, che ha sconvolto le regole del misogino universo clericale. È stata scelta dalla Maraini come oggetto di analisi letteraria proprio per il suo temperamento e la sua forza d’animo, un piglio civile dettato dal desiderio di uguaglianza che la rende perfettamente alla pari di Francesco, e non soltanto una sua appendice.
E un diverso tipo di forza che sfida le regole è raccontato da Margaret Mazzantini in Splendore, storia di un amore omosessuale sospinto nel tempo e sballottolato, scosso ma mai soppiantato da altre forze contrarie. Un amore vissuto con quell’intensità sconcertante che solo l’equivalenza tra piacere e dolore può dare, in una società che per paura e disprezzo sembra voler negare le felicità individuali. Ancora una volta, un romanzo in cui gli ultimi prendono voce, dal buio verso la luce, lo splendore. Questi sono stati i momenti che ho voluto vivere per ricavarne quel piacere puramente intellettuale che però, non si sa come, finisce per infondersi in tutto il corpo determinandone il benessere totale.
Susanna Tamaro ha criticato a lungo questi tempi moderni carichi di disillusione e incapacità di rapportarsi alle disgrazie (il sommo male, ovviamente) perché non si coglie il respiro della trascendenza del mondo, unica spinta possibile verso il compimento del bene che dà prosperità alla vita. Be’, quello che mi sento di dire io in risposta a certe parole fumose è che il bene è bene cercarselo da sé, e chiedo scusa per il gioco di parole. Se il cinismo è la malattia più o meno diffusa nella società odierna, certe pillole di benessere personale sono la cura indispensabile per capire che il mondo non fa poi così schifo.
Fotografie di Manuela Marascio