Magazine Diario personale
Pronunciare questa frase anni fa mi sarebbe parso impensabile. Credo di aver desiderato di smettere nel momento stesso in cui ho capito che da quella spirale non ne sarei più uscita così facilmente. A vedermi così minuta, poi, sembrava incredibile a chiunque che potessi riempirmi di così tanti litri di “bumba”, ma così era, e lo reggevo da dio.Perché non sempre un alcolista è riconoscibile, si diventa abili, a un certo punto, a coprire quella che, almeno io, consideravo una vergogna, il fondo che è sempre preferibile non toccare.Mi portavo a casa una tale quantità di alcolici da dover fare la spesa in più supermercati per non farmi additare da tutti. Allargavo gli anelli per quanto le dita si erano gonfiate e i miei occhi si erano fatti piccini e opachi. Dimenticavo strade, nomi e storie, trame dei film, persone con cui avevo parlato per delle ore e solo la sera prima, dimenticavo appuntamenti e cose da fare. Dimenticavo ogni cosa assieme alla paura da scacciare e che, guarda caso, nemmeno ricordavo più a che proposito mi era venuta.Ma bere fa parte della nostra tradizione.Bere è festa, baccanale, locale, sabato sera. Bere è trovare il coraggio per dire “mi piaci”, per buttare giù l’amarezza, per parare i colpi, i debiti, per dire in faccia a qualcuno ciò che si pensa –il più delle volte con parole e tempi sbagliati-. Bere è Natale, Pasqua e Capodanno. Bere è compleanno, è spensieratezza, è luogo comune.Bere è monopolio di Stato.La lente deformante dell’alcolismo rende anche la festa più noiosa divertente come un Luna Park, l’uomo più inadatto il migliore, la notte buia la più luminosa, lo so, è per questo che non se ne può proprio fare a meno.Non sono mai stata una bevitrice occasionale, la scimmia mi è salita sulla schiena che ero ancora adolescente e da allora, con pause più o meno lunghe, ci sono ricaduta fino al punto che credevo del non ritorno. Prima è solo di sabato, poi si aggiunge il venerdì –che è pre festivo- poi la domenica –così si affronta meglio la settimana- poi è il senso di colpa e il disgusto per se stessi a fare il resto. Ma la nausea per quell’azione indispensabile, gli occhi gonfi, l’alito pesante e amaro, i segni che il fegato restituisce alla pelle non bastano a smettere: con un po’ di trucco si cancellano borse e occhiaie e alle sette si ricomincia daccapo. Basta un po’ di trucco, e alle sette, in vineria o al bar, quel senso d’impotenza sparisce del tutto.Non sono sufficienti le morti del sabato sera, i giovani felici e così fuori di testa da non vedere il guard rail o la curva. Non bastano le donne ammazzate un giorno sì e l’altro pure –perché i dati parlano chiaro- le quarantamila morti l’anno tra cirrosi epatiche e altri danni legati all’assunzione di alcol.Alcol è monopolio di Stato.Lo vediamo dalla pubblicità quanto lo Stato abbia a cuore il nostro fegato.Musica fantastica e donne strafighe cercano proprio te, che come un imbecille te ne stai da solo al bancone del Pub a buttar giù la terza rossa in attesa che qualcosa accada. L’alcolista lo riconosco a distanza. Lo riconosco dall’aria triste, dalla fermentazione che gli sale su dai pori, dal gonfiore diffuso e dal colore della pelle.L’alcolista è poco loquace, almeno prima della dose giornaliera, quando guarda tutto con distacco, come se l’esistenza, la propria e quella degli altri, non fosse mai sufficientemente nitida. L’alcolista inizia a ragionare verso le diciotto, quando già avanza nel tunnel, barcollando, con in mano un bicchiere di qualcosa.Difficile dire quale sia la linea di demarcazione tra il bevitore occasionale e quello abituale. È difficile perché bere fa parte della nostra tradizione. E se da uno solo, i bicchieri diventano tre, nessuno ci bada. In Inghilterra, la polizia raccoglie dal marciapiede, durante i fine settimana, decine di ragazzi e ragazze in preda a coma etilico. Diciottenni che scopriranno a trent’anni di essere ormai sterili, tanto per cominciare.Eppure in Inghilterra le leggi sono severe.Allora il problema è altrove. È nella prevenzione del male, nella causa che cerca quell’effetto, nel bisogno, a tutti i costi, di apparire più forti, più fighi e più divertenti.Ma quando si beve è veramente difficile essere forti, fighi e divertenti: è solo una percezione alterata di se stessi.Già alle ventitré, la ragazza con il trucco sfatto e l’alito di un cammello va in cerca con lo sguardo appannato di qualcuno che si faccia con lei il bicchiere della staffa. Alle ventiquattro, il tizio che si è portata a casa, e che conosce da appena un’ora, barcolla visibilmente mentre va al frigo per prenderne un altro paio –per trovare il coraggio di provarci-. Al mattino si sono scordati persino il nome di chi gli dorme accanto, se l’abbiano fatto oppure no, con preservativo oppure no, diventa un fatto secondario rispetto alle arterie che martellano le tempie. Io, quella sera di Settembre di sette anni fa stavo per farmi la quarta Ceres quando il ragazzo che aveva deciso di passare con me la notte bianca mi disse no, grazie, sono un alcolista e non bevo da quattro anni. Provai un moto d’invidia incredibile, poi accesi la seconda sigaretta del secondo pacchetto e buttai giù quella birra tutta di un fiato: fresca e pastosa, doppio malto, profumata e forte. Ma se ne esce. Non siamo in un film americano davanti a una partita di football nella nostra bifamiliare dal frigo pieno. Non siamo in un racconto di Carver che a un certo punto chiudi e riponi sullo scaffale.Devi fare il primo passo, con o senza aiuto. Devi restare pulito per un giorno e provarci per due, poi per tre e così via.Il desiderio si farà sentire ancora, magari al supermercato, quando pensi che i prezzi pare si siano abbassati e che con dieci euro potresti svoltare la serata ma tiri dritto. Poi la voglia ti assalirà magari all’imbrunire, all'improvviso, quando l’aria frizzante varrebbe proprio la pena di bagnarla con qualcosa perché sia indimenticabile. Poi ti verrà voglia quando la tristezza si farà avanti per un motivo o per un altro.Poi, la tristezza non ti assalirà più.
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