Premessa:
il seguente reportage (se così lo si può definire) non è consigliato a beer-nerd (ebbene sì, esistono anche loro!), ingegneri e/o analisti alimentari, food-blogger, hair-stylist, chimici, cultori di “Willy Wonka e la fabbrica del cioccolato”, architetti industriali, economisti del settore alcolici, astemi e, in generale, rompiscatole vari.
Lo dedico, più semplicemente, agli amanti delle Birre Ignoranti. A tutti coloro che, quando si trovano in mano la loro bella bottiglia (o lattina) d’Ignoranza alcolica prescelta, prima di partire per la tangente dell’ebrezza si chiedono da dove diavolo provenga suddetta bontà. Insomma, lo dedico a tutti i darwinisti dell’universo Birrignorantesco. Coloro i quali non si limitano a subire l’impatto occipitale della mela di Newton, bensì decidono di indagarne le origini. Di assaporarne succo e polpa. Coloro i quali non vivono la loro dedizione alle Birre Ignoranti come una moda passeggera. Oppure come una postura da assumere nei momenti più adeguati. No, questo reportage lo dedico a coloro i quali vivono la passione delle Birre Ignoranti come una sorta di “resistenza”. Una presa di coscienza precisa e lineare. Un’opposizione al sistema consumista. Una rivoluzione nei confronti dell’uniformazione dei gusti e dei brand. Una lotta al pensiero dominante unico, insomma. Un tentativo di boicottaggio alle forze del male che, giorno dopo giorno, ci vorrebbero tutti buoni, belli e Heinekenizzati.
È a tutte queste persone, dunque, che dedico le seguenti pagine. E lo faccio con il fegato in mano, partendo da là dove tutto ha inizio. Da là dove tutto ha origine.
San Giorgio di Nogaro: l’ultima Stalingrado.
1) Un difficile risveglio.
Il raggiungimento dei trent’anni di età è un traguardo affatto indifferente nella vita di un uomo. Certo, ci sono decine di altri scogli “numerici” nel corso della vita, però i trent’anni portano con sé qualcosa di decisamente particolare. Non si tratta soltanto del passaggio dagli “enti” agli “enta”, banale gioco di parole che, come la maggior parte dei giochi di parole, non vuole dire nulla. No, si tratta di qualcosa di molto più profondo! Trent’anni è la soglia temporale in cui si iniziano a tirare le prime somme su ciò che si è costruito. Sulle basi che si sono poste. Sui rapporti coltivati e su quelli recisi. Insomma i trent’anni sono, sotto molti aspetti, gli anni del passaggio dalla spensierata sospensione del “giovanilismo” (dilatatosi a dismisura nel corso dei decenni) alla più matura presa di coscienza dell’età adulta. Certo, così come per molti altri traguardi si tratta di un traguardo più psicologico che pratico. Tuttavia è un dato di fatto che passare dal vedere un “2” sulla casella delle decine a vedere un ben più pomposo e roboante “3” non è cosa da poco. È la medesima forma della cifra a incutere timore. Con quelle braccia curve che, rientrando su loro stesse, sembrano simboleggiare la necessità di una revisione di coscienza. Una protezione maggiore da dedicare a se stessi. Un’attenzione più lucida.
Cosa potrebbe, dunque, desiderare un baldo e maturo trentenne per il suo compleanno? Un completo nero per futuri colloqui di lavoro? Col piffero! Una cartellina in simil-pelle per custodire bollette e documenti? Al diavolo! Un buono-benzina? Una vacanza? Una cena al ristorante? Un gruppo di spogliarelliste brasiliane? No, niente di tutto questo! Il regalo perfetto per un trentenne rampante e neo-maturato è una visita guidata alla sua fabbrica di birra preferita. Su questo non ci piove.
Confesso che, di primo acchito, mi sono chiesto per quale motivo mi fosse stato fatto un regalo del genere. Indagando le possibili motivazioni (e scoprendo come la maggior parte di esse passasse inevitabilmente per l’accettazione del mio proto-alcolismo) ho deciso che no, che le risposte non erano importanti. Perché ero stato un bravo ragazzo che, come un bambino che attende l’arrivo di Babbo Natale, si meritava un regalo del genere. Poche storie. Così, alzatomi di buon’ora dopo una serata affatto sobria (saggiamente ho evitato la colazione, ottimo richiamo per l’acidità di stomaco), mi sono diretto a San Giorgio di Nogaro.
Destinazione: la fabbrica della Birra Castello.
2) Qualche breve bla bla bla.
Inizialmente la fabbrica della Birra Castello non era la fabbrica della Birra Castello, bensì della Birra Moretti. Ricordate il “vecchio” Baffo Moretti? Quello con il completo verde Pino Silvestre (a proposito, voi non immaginate nemmeno da quanti anni stia cercando quegli abiti per potermi vestire da Baffo Moretti a carnevale!) e con il boccale di birra schiumosa in mano? Bene, in origine lo stabilimento di San Giorgio di Nogaro, se non propriamente del Baffo, era quanto meno di proprietà della famiglia Moretti. La quale lo aveva rilevato nel 1983, per poi cederlo nel 1996 (assieme al marchio stesso) agli olandesi dell’Heineken. Gli olandesi, però, non avevano nessuna intenzione di investire sullo stabilimento di San Giorgio di Nogaro. A loro interessava solamente acquisire il marchio Moretti, per produrre poi suddetta birra in tutt’altri stabilimenti sparsi nel Bel Paese. Così, nel 1997, Heineken decide di dismettere lo stabilimento di San Giorgio di Nogaro, abbandonando completamente la produzione di birra in Friuli.
Si potrebbero dire molte cose sulla pratica dei grandi gruppi industriali di acquisire marchi e know-how per poi chiudere gli stabilimenti e spostare la produzione in luoghi (non sempre situati all’estero) più favorevoli. Così come si potrebbero dire molte cose sul fatto che lo slogan “birra friulana” continuò a campeggiare sulle confezioni di Birra Moretti per diversi anni a venire, nonostante di friulano non avesse più nulla. Tuttavia non è questo il luogo adatto. Quindi mi limito a sottolineare come, in presenza di una dismissione industriale operata dai “magnaschei” della Heineken (dismissione che non sarà né la prima né l’ultima, come vedremo), la fabbrica di San Giorgio di Nogaro venne rilevata nel 1997 dalla nascente Birra Castello Spa. Una società nata grazie al contributo di diversi “capitani coraggiosi” (altro che quelli che dovevano salvare Alitalia), i quali volevano salvaguardare occupazione e produzione. E, perché no, creare una nuova fonte di guadagno e valorizzazione del territorio.
Lentamente e a fatica la Birra Castello iniziò a ritagliarsi il suo “spazio nel mondo”, giocando sullo slogan “la birra senza una storia”. Slogan che, seppur assolutamente cacofonico, risponde benissimo alla realtà. Birra Castello nasce, infatti, priva di storia e, proprio per questo, giovane e ambiziosa. Dopo la dismissione da parte di Heineken (e di chi altri, sennò?) del gruppo Pedavena, nel 2006 Birra Castello ingloba anche questo marchio, aggiungendo allo stabilimento di San Giorgio di Nogaro quello di Pedavena, così da aumentare la produzione. Passo dopo passo Birra Castello si guadagnò quote di mercato, utilizzando la stessa tattica di Lando Calrissian ne “L’Impero colpisce ancora” (anche se al buon Lando, quanto meno all’inizio, non giovò molto…). Ovvero quella di starsene ben nascosta negli anfratti del mercato birraio così da non destare l’attenzione dell’Impero (lascio a voi immaginare chi sia l’Impero in questione). Tattica che sembra giovare dato che, negli ultimi anni, tanto il bilancio quanto la produzione di Birra Castello è in costante crescita.
Oltre che per la qualità delle materie prime, per la professionalità, per il know-how tecnologico ed ecologico (la spedizione su rotaia è preferita rispetto a quella su gomma), ciò è possibile per un ulteriore motivo: Birra Castello produce la pressoché totalità delle birre a marchio (e non solo) di quasi tutti i competitor della GDO e del comparto discount. Mantenendo così un tasso di produttività elevatissimo, nonché delle linee di produzione spesso costrette a lavorare su turni per fare fronte alla richiesta.
3) Cose decisamente meno noiose:
Avete presente le Birre Ignoranti che bevete? Bene è molto probabile che, al novantanove percento, siano prodotte dalla Birra Castello. Avete detto Birra Mastro? Ce l’abbiamo! Avete detto Birra a marchio Coop? Ce l’abbiamo! Avete detto birra Dahlberg? Ce l’abbiamo! Birra Dana? Obviously! Birra Best Brau? E come farcela mancare! E, con loro, decine e decine di birre più o meno sconosciute. Da quelle doppio malto con gradazione alcolica superiore agli otto gradi, a quelle “farlocche” con nomi che rimandano a terre esotiche ma che, più semplicemente, sono prodotte dietro casa.
In sostanza, le cose funzionano così: immaginatevi di essere un capoccia di un gruppo della GDO e di voler immettere sul mercato la vostra Birra Ignorante (e ben vi voglio vedere a essere un capoccia della GDO e non voler puntare sulle Birre Ignoranti!); bene, San Giorgio di Nogaro è il luogo che fa per voi. Per prima cosa avvaletevi dell’aiuto di qualche tecnologo alimentare per compilare una specie di “desiderata” della vostra birra prescelta (gusto, grado alcolico, frizzantezza e così via…), poi presentatelo alla Birra Castello. La Birra Castello inizierà quindi a lavorarci su. Produrrà “birre di prova”, vi manderà assaggi gratuiti, vi chiederà dove e come si devono modificare i parametri strutturali della birra stessa. Insomma, vi cucirà addosso la Birra Ignorante che desiderate! Sperando che, come l’Uomo del Monte, arrivi il vostro sì. Una volta dato il via libera, la Birra Ignorante in questione può iniziare a essere prodotta, sempre seguendo ritmi e ordinativi da voi stabiliti.
Se siete sopravvissuti alla voglia di creare un gruppo della GDO farlocco e di farvi produrre campioni di Birre Ignoranti soltanto per potervi sbronzare a scrocco, arriva il momento fatidico: quello della visita allo stabilimento in questione. All’ultima Stalingrado, insomma, baluardo della resistenza Birrignorantesca nei confronti delle nere grinfie imperiali, desiderose di impossessarsi delle vostre papille gustative così da uniformarle al gusto corrente.
Qui non si tratta più di andar “ne la città dolente”, bensì di uscire “a riveder le stelle”.
Che siano stelle etiliche, poco importa.
4) Ingegneria is the way of life:
Nonostante il viso smunto e provato dalla sbronza della sera prima, vengo accolto in maniera amichevole e cortese dal responsabile della visita guidata, mio futuro Cicerone. Dentro di me, un po’ scettico, rifletto su come diavolo quest’uomo possa aver voglia di accompagnare uno sconosciuto nei meandri della fabbrica in cui lavora. Il suo sorriso, però, cancella subito ogni forma di dubbio. Certe cose si fanno per orgoglio e passione, un po’ come quando si decide di partecipare a una “dama etilica” pur avendo una capacità di coordinazione mente-braccio vicina allo zero. Prima di entrare nei vari reparti mi danno un badge con su scritto “visitatore” e una pettorina catarifrangente, sai mai che a qualche mulettista non venga voglia di investirmi. Così bardato, accompagnato dal mio Virgilio, posso iniziare il tour.
La prima evidenza con cui mi scontro è che, diversamente da quanto potessi pensare, produrre una Birra Ignorante è una cosa seria. Maledettamente seria! Il processo, cari miei, non è affatto semplice e prevede tutto un insieme di macchinari ad altissimo tasso ingegneristico che mai avrei pensato di vedere in vita mia. Mi sembra di essere in una sorta di realtà fantascientifica, con grandi fusti d’acciaio, turbine in costante rotazione, tubature che trasportano liquidi, sale cottura, sale lievitazione, silos, cantine, computer e controller vari. Perché sì, perché produrre Birre Ignoranti in quantità industriali, lungi dall’essere un lavoro sporco, è un lavoro pulito e di precisione. Tant’è che la fabbrica brilla come un gioiellino, e un odore dolciastro di lievito (estratto da una sorta di mini-pellet) si espande lungo tutta la sala cottura.
Mi ritornano così in mente le notti di Amsterdam di diversi anni fa. Quando me ne andavo a sbevacchiare birracce a Oosterpark, a pochi passi dalla fabbrica della birra Amstel. Con un’amica spagnola che, nel cuore della notte, continuava a chiedermi cosa diavolo fosse quell’odore di pane fresco, e io a spiegarle che era la fabbrica della birra Amstel. E lei a dirmi che no, che doveva esserci un qualche panificio nei paraggi. Così che finimmo col passar la notte in cerca di un panificio inesistente. Sbronzi come due irlandesi, ma felici.
La natura delle cose, quindi, è che per produrre ingenti quantità di Birra Ignorante ci vogliono macchinari all’avanguardia ed estremamente tecnologici. Mostri di alluminio filamentati da cavi e barometri i quali, se descritti, distruggerebbero tutto il romanticismo che porta con sé l’apertura di una Birra Ignorante con il retro dell’accendino. Per questo vi consiglio di farvi amico un ingegnere (lo so, è dura, ma so che per le Birre Ignoranti si fa questo ed altro) e di obbligarlo a spiegarvi per filo e per segno il funzionamento di una fabbrica di birra. Descrivendovi minuziosamente tutti i prodigi che si compiono dentro le grandi pance dei silos e dei fermentatori.
Dal canto mio, continuo a essere un visionario romantico. Una persona che ha bisogno di sognare per poter illudersi della bellezza dell’universo. Perché, sotto sotto, continuo a dare ragione al buon vecchio Fëdor Michajlovič: la bellezza ci salverà.
E, perché ciò avvenga, è consigliabile che ci colga sbronzi.
5) Il vorticoso ciclo della vita:
Superata la parte ingegneristica della fabbrica (devo dire che il mio Cicerone dimostrava una competenza e una professionalità superiore alla media, dedicando diversi minuti a spiegarmi il funzionamento di ciascun macchinario e ciascuna sala), usciamo nel cortile che collega al magazzino dell’imbottigliamento e imballaggio. Poco distante da numerose pile di bancali di legno, noto alcuni silos per lo stoccaggio/fermentazione. Sono enormi. Li abbiamo comprati all’asta dopo l’ennesima dismissione, si affetta a spiegare il mio Cicerone. Lo stabilimento di ******* ha chiuso, continua, quindi ho partecipato all’asta giudiziaria per accaparrarmeli. Piuttosto che finissero inutilizzati, conclude, è meglio così: appena sistemati (e, ci tengo a sottolineare, mica è un’impresa da poco interrare dei silos di alcune decine di metri di altezza!) potremmo aumentare la produzione.
Mors tua vita mea, penso tra me e me, risolvendomi a dare ragione al mio anfitrione: dopotutto è meglio che quei silos siano finiti nell’ultima Stalingrado Birrignorantesca, piuttosto che tra le grinfie di qualche speculatore da strapazzo. Guarda, sono quasi nuovi, continua orgoglioso. Gli occhi che brillano. Andiamo, dice soffocando la soddisfazione: ti faccio vedere una cosa molto interessante.
Beh, cari amici, cosa posso dirvi? Come posso descrivere l’immagine che mi sono trovato davanti? Anzi, più che l’immagine (di per sé abbastanza simile a quella di un qualsiasi ciclo produttivo industriale), come posso descrivervi la gioia e l’emozione nel vedere il ciclo continuo dell’imbottigliamento della birra? Bene, immaginate di trovarvi di fronte una macchina metallica che sputa a ritmo ininterrotto decine e decine di bottiglie di birra che scorrono su guide metalliche a una velocità vorticosa. Tipo le vecchie Mini4WD sui percorsi prestabiliti, per intenderci. Poi immaginate di vedere tutte queste bottiglie venir riempite una dopo l’altra da un getto di birra. E, in seguito, tappate. Il tutto a una velocità difficilmente descrivibile e con una sensazione di ritmo e pulizia capace di far sembrare quel processo il più semplice del mondo.
Ed era tutto un muoversi di leve, pompe e pistoni i quali interferivano nella corsa della bottiglia quel tanto che bastava per donarle contenuto e protezione. In una sorta di minima invasività, capace di rendere il ciclo stesso della metempsicosi Birrignorantesca la cosa più naturale e logica dell’universo. La ricerca del Nirvana non può essere rallentata, né arrestata. Al massimo può essere indirizzata, veicolata, canalizzata. Quella macchina convogliava, quindi, le migliori energie della produzione Birrignorantesca, facendole sfociare nella loro realizzazione più sublime: la possibilità di donarsi a noi, Bevitori Ignoranti; saggi custodi di un credo in via d’estinzione. Orgogliosi viandanti in quel mare di nebbia che è la vita etilica.
Al di là della bellezza e purezza dell’immagine di centinaia e centinaia di bottiglie di birra in movimento uniforme tra le spire metalliche dell’imbottigliatrice, mi ha colpito la precisione del processo stesso. Vedi, continua il mio Cicerone indicandomi un sensore posto su un braccio metallico all’altezza della parte finale della macchina, quello serve a controllare l’altezza della birra e la completa chiusura del tappo a corona. Se la bottiglia è troppo piena o troppo vuota, oppure se il tappo non è ben sigillato, la macchina scarta immediatamente la bottiglia in questione, nonché le due precedenti e le due successive. Devo dire che, nel corso dei minuti trascorsi a osservare estasiato questo processo, le bottiglie “scartate” erano una percentuale infinitesimale rispetto al serpentone di bottiglie che sbucava fuori indenne dal controllo del sensore.
I rischi e gli errori meccanici erano nuovamente ridotti al minimo.
6) “My beer drove up in a brand new packaging!”:
Una volta imbottigliate e sigillate, le birre partono alla volta del “confezionamento”. Ritorniamo, per un attimo, a quella meravigliosa e assolutamente irrealizzabile ipotesi di essere il capoccia di un qualche colosso della GDO che vuole lanciare una linea di Birra Ignorante “a marchio”. Bene, voi spedite logo e materiali cartonati alla Birra Castello e loro si occupano di appiccicarveli su tutte le centinaia di migliaia di confezioni di birra che volete immettere nel mercato. Ovviamente mica lo fanno in stile fabbrica di Babbo Natale. Con gli gnomi, gli elfi e le renne dal naso rosso. No, le etichette vengono appiccicate a caldo da una speciale macchina, mentre le confezioni cartonate (che si presentano sotto forma di grandissime risme di fogli di cartone piatti, recanti logo e tutte le diciture di legge) vengono piegate da un altro marchingegno che, con dei minuscoli braccetti metallici, compie assurdi origami capaci di trasformare suddetto foglio cartonato in una confezione di birre da 3×33 cl.
Intendiamoci, non che tutti i packaging siano uguali. Io ho avuto la possibilità di assistere al packaging delle Best Brau da 33 cl, ma va detto che il packaging di altri formati (15×66 cl, 6x33cl, 6×66 cl) avrebbe solamente cambiato alcuni parametri della macchina confezionatrice. Di certo non il principio fondante. Ovvero quello della poesia meccanica dei braccetti metallici intenti a creare tridimensionalità dalla bidimensionalità.
Detto questo, una volta confezionate nelle singole unità di vendita, le Birre Ignoranti in questione vengono ri-confezionate in cartoni più grandi e poi assemblate in bancali (ricordate le pile di bancali poste tra un reparto e l’altro, di cui sopra?) i quali vengono incellophanati da un braccio meccanico che ricorda moltissimo il ragno gigante del Signore degli Anelli. Quello che afferra Frodo e gli fa fare un bel po’ di giri su se stesso per avvolgerlo con la sua ragnatela. Solo che la ragnatela del braccio meccanico in questione è un cellophane plasticato, il quale avvolge le confezioni di Birre Ignoranti per proteggerle in vista delle future spedizioni. Una volta sigillati, i bancali vengono fatti scorrere su un nastro trasportatore fino al magazzino, dove vengono stoccati in attesa di essere spediti al destinatario.
7) Del Paradiso ci restano solo le stelle, i fiori e le Birre Ignoranti:
Come potete intuire, amici cari, siamo quasi giunti alla fine di questo reportage. Dopo aver attraversato i diversi gironi danteschi che fanno sì che da una miscela di lieviti, acqua sorgiva, luppolo e malti vari si arrivi a una Birra Ignorante vera e propria, non può che aprirsi dinnanzi a noi l’empireo del Paradiso. Altresì noto come “magazzino di stoccaggio”.
Immaginatevi, quindi, bancali su bancali di Birre Ignoranti. Di tutti i formati. Di tutte le tipologie. Di tutti i colori, forme, odori, sapori e deliri Birrignoranteschi! Ho detto tutto? Tutto! Decine, centinaia di bancali di birra. Quanti mai ne potrete bere nel corso della vostra intera esistenza. Bancali sovrapposti. Bancali incastrati. Tetris di bancali Birrignoranteschi pronti alla spedizione, alla faccia dell’Impero della globalizzazione! Quel giorno avevo di fronte a me tutto quel ben di dio, e me ne stavo muto e inebetito come un monaco tibetano che avesse appena ricevuto l’illuminazione. Essere di luce prossimo alla perfezione e al raggiungimento della massima resilienza nell’angusta società occidentale. Insomma, ero lì schiumante di piacere quando il mio Virgilio si avvicina e mi dice rammaricato che sono giù di scorte. Che il magazzino è mezzo vuoto e che dovranno intensificare i turni per evadere tutti gli ordinativi. Amici cari, a voi posso confessarlo: è stato un colpo al cuore. Una pistolettata sulle budella. Una revolverata nelle interiora. Tutto quel bengodi lì, a due passi dalle mie mani, era ancora una minima parte di ciò che avrebbe dovuto essere? Quale immenso e sconfinato Paradiso avrei dunque visto nei momenti di massimo fulgore?
Non ti curar di loro, Andreij, ma guarda, sogna, e passa.
8) Tu chiamale, se vuoi, degustazioni:
Finito il tour “tecnico”, arriviamo ai saluti. Il buon Virgilio-Cicerone mi porta in un laboratorio pieno di provette, beute, bricchi, aggeggi di vetro, termometri e chi più ne ha più ne metta. Si tratta del luogo preposto alle analisi chimico-organolettiche. Una birra, infatti, prima di essere mandata in produzione su larga scala, subisce numerosi test in laboratorio, nonché prove d’assaggio, controlli di qualità e via discorrendo. Analisi, insomma, che ne certifichino la bontà e la corretta aderenza alle direttive individuate dalla società/gruppo che l’ha commissionata. Mettete da parte tutte le vostre immagini di Barney appiccicato alla spina del bar di Boe nei Simpson. Qui le analisi vengono fatte seriamente, da tecnologi alimentari laureati che, se potessero, eviterebbero anche di bere concretamente la birra (sacrilegio!). Ma, bontà dei vecchi metodi, testare una birra senza berla no, non è proprio possibile.
Sono circa le undici del mattino, la sbronza della sera prima è quasi scesa del tutto, mentre l’acidità di stomaco non ha ancora preso il sopravvento. Assaggia qui, dice il mio anfitrione porgendomi un bel boccale di birra appena spinata. Si tratta di una doppio malto non ancora pastorizzata (amici cari, dovete sapere che la legislazione italiota prevede che tutte le birre vendute in territorio italico debbano essere pastorizzate; processo che, pur allungando sensibilmente la vita del prodotto, ne riduce indiscutibilmente la qualità), che stanno per mandare in produzione. La assaggio timoroso. Commosso, quasi, da quel boccale che, nel mio immaginario, corona un emozionante viaggio attraverso la presa di coscienza della creazione di una Birra Ignorante. Il primo sorso è quasi sacrale, poi mi lascio andare al delirio. La birra in questione è davvero buona, saporita, frizzante e torbida al punto giusto. Vorrei sbevazzarmela direttamente dalle spine (ecco qui che salta fuori il buon vecchio Barney che c’è in me!), utilizzando le beute per le analisi chimiche a mo’ di bicchieri. Ma no, i camici delle tecnologhe sono troppo bianchi, la Birra Ignorante troppo buona, la disponibilità di Virgilio-Cicerone troppo piena, il clima troppo amicale.
Finisco con calma il mio bicchiere e mi indirizzo verso l’uscita. Il mio anfitrione mi saluta con una stretta di mano. Io contraccambio, ringraziandolo. È stato un piacere, dice. Anche per me, aggiungo. E adesso, domanda, che te ne farai di questa esperienza? Scriverò un reportage, concludo. E come lo chiamerai? incalza. “San Giorgio di Nogaro”! “San Giorgio di Nogaro?”
San Giorgio di Nogaro: l’ultima Stalingrado.
Conclusione:
Poi esco. Il parcheggio della Fabbrica della Birra Castello è grigio come le periferie della gran parte delle città sovietiche post-industriali.
Il cielo è coperto da banchi di nubi color cenere. Io me ne sto fermo accanto alla macchina, mezzo intontito dal bicchiere di Birra Ignorante doppio malto gettato gelido nello stomaco. Sento l’ebrezza della sera prima tornare su. Solo che non è propriamente un’ebrezza alcolica, piuttosto una specie di calore all’altezza del petto. Una sensazione di stordimento e protezione che no, che davvero non saprei descrivere, ma che si impossessa di me come una febbre. Allora alzo nuovamente gli occhi al cielo. Le nuvole si sono aperte. Infrante come maledizioni gettate in faccia ad astemi impenitenti. Mi scappa un sorriso. Un sorriso da dentro l’anima.
Un sorriso che esce fuori come Dante e Virgilio, a riveder le stelle.
I fiori della rivoluzione Birrignorantesca in germoglio.
Il sol dell’avvenire che brilla lassù.
A illuminare l’ultima Stalingrado.
“Fischia il vento e infuria la bufera, scarpe rotte e pur bisogna andar. A conquistare la rossa primavera dove sorge il sol dell’avvenir”
Colonna sonora (capitolo per capitolo):
- Velvet Underground & Nico: “Sunday Morning” (1966)
- CCCP Fedeli Alla Linea: “Morire” (1985)
- Stormy Six: “Stalingrado” (1975)
- Kraftwerk: “Trans Europe Express” (1977)
- The Doors: “Roadhouse Blues” (1970)
- The Clash: “Brand New Cadillac” (1979)
- Nine Inch Nails: “The Frail” (1999)
- Lucio Battisti: “Emozioni” (1970)
- Chet Baker: “Grey December” (1953)