La passione per il giornalismo e la preghiera, la devozione religiosa e missioni ovunque. C’è stato molto, anzi moltissimo nella vita di san Massimiliano Kolbe (1894-1941), di cui oggi ricordiamo la morte. Francescano conventuale, questo figlio di Polonia non ebbe certo una vita noiosa: entrò ancora molto, a 13 anni, nell’Ordine dei Frati Minori Conventuali in Leopoli, nel 1922 curò insieme ad altri la pubblicazione del Rycerz Niepokalanej (Cavaliere dell’Immacolata), un mensile, e pochi anni dopo, nel 1927, diede vita ad una singolare “città”, che chiamò Niepokalanow (Città dell’Immacolata) e dove, accanto alla vita religiosa consacrata a Maria, venivano promosse le più svariate espressioni di apostolato: dalla stampa alla radio, dal cinema all’aeroplano; inoltre poi viaggiò molto, dal Giappone all’India.
Ci sarebbe davvero molto da dire, insomma, sull’intensa ed appassionata esistenza di padre Kolbe. Eppure il culmine del suo viaggio terreno si verificò indubbiamente là, nel campo di concentramento di Auschwitz dove, a partire dal maggio del 1941, si trovava dopo essere stato arrestato per la seconda volta dai nazisti (era stato rimesso in libertà nel dicembre del ’39, dopo un primo arresto seguito da due mesi di prigionia). Un luogo infernale dunque, che avrebbe azzerato l’ottimismo di chiunque ma che, incredibilmente, non spense la speranza del frate il quale trovò pure, laggiù, la forza di scrivere ricordando alla madre che «Dio c’è in ogni luogo e con grande amore pensa a tutto e a tutti». Già questo dovrebbe bastare a comprendere la notevole statura del francescano. L’apice della sua grandezza, però, doveva ancora emergere.
Ed emerse di lì a poco, precisamente quando, dopo la fuga di un detenuto, i nazisti presero dieci prigionieri per spedirli nel “bunker della fame” e padre Kolbe si offrì al posto di uno di loro che, piangendo, disse di avere una famiglia. Senza acqua né cibo per quindici giorni, molti morirono ma il frate, coi superstiti, tenne duro cantando e pregando la Madonna. E quando, increduli, gli uomini delle SS decisero di eliminarlo iniettandogli acido fenico, costui fissò il medico nazista e, prima di spirare col nome di Maria sulle labbra, gli disse: «Lei non ha capito nulla della vita…l’odio non serve a niente. Solo l’Amore crea!». Aveva ragione: quasi nulla sappiamo dei suoi carnefici, mentre oggi, 73 anni dopo quel 14 agosto 1941, padre Kolbe è santo. L’odio con cui venne eliminato s’è disperso come cenere nelle periferie della storia, lui vive. Di più: giganteggia e illumina chiunque venga a conoscenza del suo sacrificio.