Sangue sul voto: attentato maoista in India

Creato il 12 aprile 2014 da Milleorienti

14 persone uccise  in India, nello stato centrale del Chhattisgarh: è  il tragico bilancio di un attentato dei guerriglieri maoisti naxaliti, che hanno attaccato un convoglio di partito e un’ ambulanza. E’ questa la “campagna elettorale” dei maoisti naxaliti, che rispondono con le armi alla democrazia indiana, impegnata fino al 12 maggio nelle elezioni legislative. 810 milioni di indiani stanno esercitando – suddivisi per stati, in varie fasi – il diritto di voto, ma i maoisti naxaliti  vogliono mettere la propria sanguinosa firma sul processo elettorale. Vediamo dunque chi sono, oggi nell’ India del boom economico, gli eredi di quel “fossile politico” che è il maoismo, quali ragioni li muovono e perché hanno uno spazio politico.

CHI SONO I NAXALITI Dagli anni Sessanta in India sono attivi numerosi movimenti maoisti: alcuni dediti alla guerriglia, altri organizzati in partiti politici legali. I media indiani li indicano genericamente con l’etichetta di “Naxaliti”, perché fu a Naxalbari – un distretto del Bengala – che alla fine degli anni Sessanta avvenne la prima insurrezione armata di stampo maoista. Passati attraverso una lunga serie di scissioni e fusioni fra gruppi extraparlamentari, oggi i Naxaliti hanno la loro più nota espressione politica nel Communist Party of India (Maoist), illegale in quanto aperto sostenitore della lotta armata per rovesciare lo Stato. La strategia dei guerriglieri naxaliti si rifà a un vecchio slogan di Mao Zedong: accerchiare le città, partendo dalle campagne. Non è il proletariato urbano il “terreno di coltura” del maoismo bensì i villaggi dei contadini analfabeti e le foreste abitate degli aborigeni. Obiettivo: attaccare le città, simbolo della “Shining India” e del suo sviluppo economico, percepito come estraneo e ingiusto.

UN “CORRIDOIO ROSSO” NELL’INDIA TRIBALE Le formazioni armate maoiste oggi sono attive in un ampio territorio che comprende vari Stati dell’India orientale (Bengala, Jharkhand, Chattisgahr, Orissa, Andhra Pradesh), con una continuità territoriale che ha spinto i media indiani a coniare la definizione di “corridoio rosso”. Questo “corridoio rosso” comprende zone economicamente molto arretrate e coperte da fitte foreste, abitate in maggioranza da aborigeni che che in India vengono chiamati Adivasi, cioè “abitanti originari”. L’India è infatti il Paese al mondo con il maggior numero di aborigeni: circa 80 milioni di persone. Gli Adivasi conducono molto spesso uno stile di vita tradizionale (caccia, pesca, artigianato, agricoltura rudimentale) e sono totalmente esclusi dai benefici dell’attuale boom economico indiano.  Sono queste regioni aborigene a costituire il cuore del “corridoio rosso” in cui opera la guerriglia maoista.

LE RAGIONI ECONOMICHE DEL CONFLITTO Il mancato sviluppo economico delle regioni orientali ad alta densità di Adivasi rappresenta per l’India un grave problema sociale tuttora irrisolto. Il problema è inoltre aggravato dai numerosi conflitti – giuridici e politici – in corso per la proprietà delle terre. Le regioni dell’India orientale comprese nel “corridoio rosso” sono infatti ricchissime di risorse minerarie che fanno gola a molte imprese multinazionali, ansiose di aprire miniere.  Ma ecco il problema: spesso questi terreni appartengono alle tribù aborigene che li abitano “da sempre” e che in numerose occasioni sono state vittime di espropri – o di vendite forzate – dei propri territori in favore delle multinazionali minerarie. E’ così che gli aborigeni, spesso poco assistiti sul piano legale e politico (con la bella eccezione dell’organizzazione Survival International) diventano reclute “ideali” per le formazioni della guerriglia maoista.

UNA VOCE PER I MAOISTI: ARUNDHATI ROY. L’opinione pubblica e il mondo politico indiano, compresi i partiti comunisti legali, sono compattamente contrari ai movimenti naxaliti, accusati di inumanità nell’uso della violenza (cui fa da specchio, in molti casi, la violenza delle forze di sicurezza antiterrorismo). Ma esistono anche, nell’opinione pubblica indiana, voci dissonanti, come quella della famosa scrittrice e polemista Arundhati Roy (già vincitrice del Booker Prize per il romanzo “Il dio delle piccole cose”).  Roy racconta della propria esperienza come “osservatrice” al seguito di una formazione maoista, proprio nello Stato indiano del Chhattisgahr, nel libro «In marcia con i ribelli» (editore Guanda, pp. 202, euro 18). Vale la pena di riportare uno stralcio del libro di Roy (a pag. 18) che dà conto del punto di vista della scrittrice indiana:

«Al momento, nell’India centrale, l’esercito guerrigliero maoista è composto per la quasi totalità di disperati e poveri di estrazione tribale, alle soglie del livello di carestia, in condizioni di fame cronica che di solito associamo solo all’Africa subsahariana. Sono persone che, a 60 anni dalla cosidetta indipendenza dell’India, continuano a non avere accesso all’istruzione, all’assistenza medica e legale. Sono persone sfruttate senza pietà, per anni, truffate in continuazione da piccoli affaristi e usurai, mentre le donne venivano violentate da poliziotti e personale del Dipartimento Forestale come se fosse un diritto acquisito. Il loro viaggio verso il recupero di una parvenza di dignità si deve in gran parte ai militanti maoisti che hanno vissuto, lavorato e combattuto al loro fianco per decenni».
Un libro quello di Roy che, al di là di qualsiasi valutazione politica, merita di essere letto non solo per la qualità della scrittrice ma anche per l’originalità della sua testimonianza fra i guerriglieri che rappresentano, nelle parole del Premier indiano Manmohan Singh, «la più grande minaccia per la sicurezza dell’India».


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