“La musica è al centro”. Così Fabio Fazio alla presentazione in anteprima alla stampa delle 28 canzoni (due per ogni Campione in gara) del 63° Festival della Canzone Italiana di Sanremo (12/16 febbraio 2013). Per questa edizione torna la giuria di qualità, per ridurre lo strapotere del televoto. Infatti il vincitore finale sarà deciso al 25% dal televoto di giovedì, al 25% da quello di sabato e al 50% dalla giuria. Come anticipa Il Corriere della Sera, il presidente sarà il premio Oscar Nicola Piovani. Tra i giurati, lo scrittore Paolo Giordano e la conduttrice Serena Dandini. Dal mondo della musica dovrebbero essere coinvolte la pianista jazz Rita Marcotulli e l’arpista Cecilia Chailly. L’attenzione ai testi sarà garantita dal giornalista e linguista Stefano Bartezzaghi. Dunque, dopo l’atteso primo ascolto, arrivano oggi le pagelle dei critici sui giornali. ”Libero di osare. Intelligente. C’è una bella brezza trasversale che attraversa il Festival di Fazio. Lo annusi subito, usando il naso del tuo orecchio” scrive Marco Mangiarotti su Quotidiano Nazionale:
Fabio ha scelto 28 brani (ne passano 14) che attraversano i migliori anni ’60, il jazz come linguaggio universale, tutte le declinazioni possibili del teatro canzone, dal rock di Marta sui Tubi a Simone Cristicchi. Si parla, mi viene da scrivere: non si canta, di politica e dei tempi in cui viviamo con il pudore e la dignità di ognuno. C’è leggerezza, una piacevole anarchia, una densità poetica che emoziona al pari del ventagio di idee e arrangiamenti che spaziano dal tango al vortice zappiano di Elio e Le Storie Tese. La loro “Canzone monotona” è una divagazione irresistibile e geniale su una nota, “La prima volta (che sono morto)” (Cristicchi) quel che potrebbe scrivere oggi Petrolini. Mentre Raiz cita per gli Almamegretta Pier Paolo Pasolini. Lo stupore del primo ascolto premia Raphael Gualazzi, quello di una ballad anomala, “Sai (ci basta un sogno)”. Il corteo di Daniele Silvestri, Simona Molinari e Peter Cincotti (sfida al piano jazz con Gualazzi) nell’inedito di Lelio Luttazzi, “Dr. Jekill Mr Hyde”.
Gino Castaldo su La Repubblica afferma che “la vera notizia, quasi da lasciare sgomenti, è che la media qualitativa delle canzoni che ascolteremo al festival, dal 12 febbraio su Raiuno, è sorprendentemente alta, considerando gli scempi del passato. Se ne avranno a male quelli che prediligono il trash, quelli che Sanremo preferiscono immaginarlo come un gigantesco bersaglio su cui scagliare velenose freccette, ma quest’anno va così”. Marinella Venegoni su La Stampa scrive che quest’anno la qualità è “a tratti copiosa. Molta immaginazione, molti sogni, molte angosce. Testi da tuffarcisi a tratti dentro, se si cercano grane. Ma anche molto repertorio alla sanremese, nel senso più prevedibile del termine”:
Adescatori di televoto: Sono, manco a dirlo, i protagonisti dei Talent-show, in questo Festival under 50 (come svecchiamento, è già tanto), nati alla musica obbedendo a criteri tv più che musicali: il vero peccato originale, del resto anche appannaggio del Sanremone, che essendo un tv show obbedirebbe a regole televisive anche se lo dirigesse Bob Dylan (forse). Annalisa, per cominciare dalla A, ci affronta ma non ci convince né quando va sul patinato ultraclassico, né con i sapori Anni ‘50 di Scintille. L’attesissima Chiara, fresca vincitrice di X-Factor, si è affidata in un brano ai fratelli Zampaglione, ma il pezzo anche impegnativo è affogato in una valanga di effetti sonori, con urlo obbligatorio; il suo sguardo è rivolto a Mina (che la ama), anche nel secondo pezzo più mosso, Il futuro che sarà, testo di Bianconi («credo negli angeli ma frequento l’inferno»). Marco Mengoni, dicono, è in evoluzione: ma resta l’impressione di una voce che per quanto notevole bada a se stessa più che all’espressività della canzone. Troppo freddo, e non a suo agio anche in Bellissimo di Nannini/Pacifico, poprock virulento da stadi. Talent a parte, anche gli amatissimi Modà sono gente da televoto: due ballads meno urlate e più accurate, sempre di Kekko, ma Se si potesse non morire echeggia in modo inquietante Non è l’inferno (sempre sua) che ha vinto Sanremo nel ‘12 con Emma. Gli autori nobili divertono: Qui c’è il top della compagnia. I più pungenti, Elio e le Storie Tese: Dannati Forever sfotte la moda dilagante delle fedi («Posso smaltire i peccati con il jogging?») e sollazza con un «Tutti insieme all’inferno/anche il governo/ coi sodomiti i moderati i giornalisti e gli esodati»; La canzone mononota è un capolavoro di satira sugli escamotage di scrittura nel mondo del pop. Max Gazzé nel ballonzolante ska Sotto casa se la prende con chi bada più ai rituali religiosi che non ai contenuti, mentre la complessa, ironica I tuoi maledettissimi impegni farà riflettere tutte le donne superimpegnate. Daniele Silvestri erompe in una stornellata postmoderna in romanesco: A Bocca chiusa canta la difficoltà di esprimere il malcontento nel sociale, Il bisogno di te è uno ska amarognolo su un amore viziato. Gran ritorno per Simone Cristicchi: Mi manchi è un elegante e delicato pop/folk («Mi manchi come a un bottone l’asola»), poi nella ballata La prima volta che sono morto immagina il post-mortem: un posto dove giocare a briscola con Pertini e passeggiare con Charlie Chaplin. Il mondo indie: Marta sui Tubi, fra i più originali della platea giovanile, si buttano in due maschi e virulenti esempi espressivi del nuovo rock, fra emozione e tecnica («Non soffro se mi sento solo/soffro solo se mi fai sentire dispari»). Gli Almamegretta riuniti con la voce affascinante di Raiz, ricostruiscono una specie di Ragazzo della via Gluck in un paese rovinato dal degrado più che dal progresso. Le canzoni vere del pop: Poi c’è il pop scritto con coscienza. Forse meno quello di Malika Ayane, più brava del suo autore Sangiorgi a far vivere con eleganza due pezzi tutto sommato banali, Niente (il migliore) e E se poi. Raphael Gualazzi è dedicato autore e interprete di due pezzi musicalmente complessi e gradevoli, già in pole position per una vittoria che avesse un senso. Si difende con onore Simona Molinari accompagnata dal prode Peter Cincotti, fra Dr.Jekyll e Mr. Hyde (inedito spumeggiante e swing di Lelio Luttazzi), e la melodia contagiosa di Felicità. Più tosta Maria Nazionale: dal neomelodico al classico napoletano, è rigorosa fra un Gragnaniello e i Servillo/Mesolella degli Avion Travel.
Il critico Paolo Giordano su Il Giornale scrive che la canzoni in gara “sono tutte nel segno della «contemporaneità» (ipse dixit) e quindi mica tanto allegre”:
Intanto i brani non sono sanremesi, vivaddio: fine definitiva delle rime facili e dell’attitudine da ancien regime festivaliero già in conclamata estinzione. Per capirci, se si parla di amori, sono sempre traditi o sofferti e con inattesa frequenza spuntano le parole morte, inferno (gettonatissimo), niente, dubbio e altre variazioni della disillusione. Segno dei tempi. Come le scelte musicali e gli arrangiamenti che, talvolta, sono di rarefatta complessità. In poche parole, si vede – meglio: si sente – il gusto di Mauro Pagani e della sua squadra di selezionatori. «Almeno settanta artisti ci hanno mandato brani» spiega lui. E l’ultima a essere esclusa dalla rosa dei quattordici big è stata Antonella Ruggiero. Di sicuro, i veri cavalli pazzi sono Elio e Le Storie Tese, che sparigliano tutto con due canzoni tra le migliori della loro carriera. In Dannati forever, dopo aver fatto «due passi in un percorso di fede» mandano (ironicamente) all’inferno «anche il governo coi sodomiti, i moderati, i giornalisti e gli esodati». E nella strepitosa Canzone mononota, fulminante intuizione destinata a diventare un classico, cambiano passo, tono, ritmo e addirittura voce, prendendo in giro quasi tutti, da Rossini a Dylan a Jobim mettendoci dentro persino Tintarella di luna. Chapeau. Idem a Raphael Gualazzi e alla sua voce cresciuta che in Sai (ci basta un sogno) distende un testo impegnativo e ottativo che si abbina a una partitura più convincente quando si distende nel finale. E poi in Senza ritegno piazza un capolavoro che ruota simbolicamente intorno al verso «mentre imbianco l’uomo nero» e alla presa di coscienza di fronte alla realtà. Un Gualazzi super. Come Simone Cristicchi, più prevedibile nella malinconia d’amore di Mi manchi ma decisamente all’altezza in La prima volta (che sono morto), surreale Dante alle prese con un imprevedibile aldilà nel quale passeggia con Charlie Chaplin, gioca a briscola con Pertini, guarda l’ultimo film di Pasolini e disillude il nonno partigiano. E, se proprio si gioca di classe, Simona Molinari (con Peter Cincotti) vince con La felicità (musiche del bravo Carlo Avarello) e soprattutto con Dr Jekil Mr Hide, brano inedito di Lelio Luttazzi, swing superbo nel quale lei gioca in casa. Così come Annalisa, finalmente sensuale in Non so ballare e molto efficace in Scintille (bello il verso «Volano i satelliti sulle formiche»). E anche Chiara, fresca vincitrice di X Factor che in L’esperienza dell’amore colora la sua voce da grande interprete e ne Il futuro che sarà (firmato da Francesco Bianconi dei Baustelle) si esalta nel verso «credo negli angeli ma frequento l’inferno». Dopotutto, questo è il Festival delle grandi firme visto che ci sono anche brani firmati da Gianna Nannini (Bellissimo per un Marco Mengoni in crescita esponenziale, fin troppo), Federico Zampaglione per Almamegretta (in Onda che vai, loro portano anche il reggae di Mamma non lo sa con il vocione di Raiz), Giuliano Sangiorgi per Malika Ayane (brava in Niente ma molto più coinvolgente in E se poi che ha un esprit quasi beat) e Enzo Gragnaniello e la coppia Avion Travel di Peppe Servillo e Fausto Mesolella (che hanno scritto in parte in napoletano) per l’incognita Maria Nazionale, che piacerà a Roberto Saviano ma sembra un po’ frenata da un manierismo interpretativo vecchio stile. A proposito: ieri un raffreddatissimo Fabio Fazio ha detto che no, Saviano non sarà al Festival perché «non si fa mai il già fatto». Ci torneranno invece i Modà con due brani stilisticamente omogenei destinati a sbocciare con il tempo (Come l’acqua dentro il mare e Se si potesse non morire). E se Max Gazzé è incalzante in Sotto casa, ne I tuoi maledettissimi impegni canta un verso disperato e bellissimo: «Sei tu che mando giù nel petto quando mi getto vino in gola». Piacerà, vedrete. Idem Daniele Silvestri, scanzonato nel Bisogno di te ma protestante disilluso in A bocca chiusa. E, se anche i bravi Marta sui Tubi mescoleranno in prima serata tv Oscar Wilde e Mallarmé con Motorpsycho e Sonic Youth (in Dispari) vuol dire che l’orologio del Festival ha completato l’aggiornamento e ora batte il tempo di quello al polso degli italiani. Comunque vada, è già un successo.