Sarajevo: ricognizione del territorio per la sopravvivenza
di Karl Schlögel
Sarajevo assediata
Nelle vetrine delle librerie di una Sarajevo dove i membri di organizzazioni internazionali passeggiano accanto ai turisti già tornati è esposta la cartina che mostra la città durante gli anni dell'accerchiamento e dell'assedio, dal 1994 al 1998[1]. Chi la compra si trova tra le mani una carta di guerra. Guarda con gli occhi del nemico dai monti circostanti verso la città che è un grande anfiteatro, un palcoscenico sul quale si può seguire con esattezza ogni movimento e persino, se si tende bene l'orecchio, percepire ogni voce. E vede con gli occhi di chi, assediato, se ne sta giù, in fondo alla conca, e scruta verso l'alto per vedere cosa succede là sopra. Vi sono tracciate le alture da cui furono lanciate le granate sul bazar che, strapieno di gente, si trasformò in un inferno di corpi dilaniati, membra strappate, brandelli attaccati ai parapetti e sangue, sangue ovunque. Il bazar, cinto da case di uno o due piani, centro vitale in cui bisogna recarsi di continuo, in una città che deve approvvigionarsi e cavarsela in qualche modo: il bazar come bersaglio perfetto dove non è necessario essere professionisti per provocare un terribile bagno di sangue. La città con le sue torri, gli edifici a molti piani e le cupole delle chiese, le scuole, le sinagoghe e le biblioteche. Bersagli da manuale per chiunque abbia voglia di mettere le mani sulla città. E così incendiarono palazzi i cui resti oggi sono ancora là , come sculture trash, quasi rinati nella primavera che è tornata a fiorire tutto intorno. Condomini di venti piani con i fianchi sventrati, le inferiate dei balconi deformate, tende che sventolano fuori dalle finestre distrutte dalle fiamme; il grande triangolo di epoca asburgica che un tempo fu la Biblioteca nazionale, in cui sono bruciati tesori della letteratura bosniaca; case lungo strade alquanto ripide, incendiate e ora aspre fratture sulla linea delle facciate. Che aspetto ha Sarajevo dalla prospettiva degli assedianti? La città è prigioniera nel bacino. Chiunque può usarle violenza, non c'è bisogno di coraggio, soltanto di una posizione favorevole per guardare dall'alto e sparare. E proprio lo sparo non prevedibile è quello che causa il più grande terrore, perché dice che non ci sono più posti sicuri, non c'è più nessuna zona di maggiore o minore sicurezza. L'intero spazio della città è esposto alla stretta degli assedianti. Chi assedia Sarajevo è il conoscitore della città per eccellenza. Vi ha vissuto, vi è andato a scuola, conosce ogni angolo, ogni vicolo, ogni scorciatoia, ogni uscita posteriore. Conosce persino il ritmo della città, i diagrammi di movimento, gli intervalli in cui passano i tram, i treni, gli autobus. I proiettili sono stati sparati da tiratori che conoscono la città intimamente. Soltanto loro colpisco con tale frequenza e precisione. La città viene esaminata dalle colline principali, da rilievi e punti particolarmente favorevoli come il cimitero ebraico oppure la sede della televisione. Da lì parte la grande arteria su cui passava il tram dal centro antico verso la città nuova e l'aeroporto, aperta agli sguardi come su una carta tracciata con particolare accuratezza. Basta percorrerla con il dito, appuntare una nota. Da lì si ha campo di tiro libero fino al centro della città vecchia. I minareti, le torri, le cupole, in poche parole il ben noto profilo è il migliore punto di appoggio, la bussola più affidabile per colpire i punti nevralgici che tengono insieme l'organismo della città: incroci, mercati, fermate dell'autobus, alberghi. Chi domina le colline, domina lo spazio aereo sopra la città e ha dunque il controllo.
Gli assediati devono vedersi con gli occhi degli assedianti se vogliono sopravvivere. Devono conoscere alla perfezione la linea che unisce i tiratori scelti sulle alture al centro della città per oltrepassarla in fretta o con scarti improvvisi. Devono sapere cosa vede il nemico per decidere dove sta la via più o meno sicura: all'ombra degli edifici, su quella strada laterale che non è visibile al nemico, sotto il ponte.Occorre adattare la successione dei propri movimenti alla velocità di reazione dei tiratori scelti. Le piazze aperte, un tempo il cuore urbano, sono ora trappole mortali che vanno evitate a ogni costo, mentre gli antri cittadini, le cantine, i locali dell caldaie, il sistema di gallerie della città moderna, sono diventati il posto più sicuro, quello in cui la città decide di se stessa. Entro la fine dell'anno arriva a compimento ancora una volta una situazione estrema XX secolo: la metamorfosi di una società di cittadini in abitanti di camminamenti e grotte. Se gli assedianti hanno il controllo dello spazio aereo e dunque hanno in pugno la città, agli assediati appartiene il sottosuolo. Lì sono quasi inattaccabili e anche imbattibili se resistono fino all'arrivo degli aiuti. La Sarajevo degli assedianti ha la sua topografia: il monte Iman, la torre della televisione, il cimitero ebraico, Optja e altri punti. Così come la Sarajevo degli assediati: gli ospedali, le chiese, i tunnel. Resteranno indelebili nelle menti degli abitanti. Non hanno bisogno di carte perché sono pratici dei luoghi dell'emergenza e del terreno minato. Le carte di Sarajevo sono disegnate post festum. Per gli assediati di un tempo la conoscenza topografica era essenziale per vivere, anzi per sopravvivere. L'intera popolazione di una città si specializzò in topografia urbana e ricognizione del territorio.
Un antico manuale per futuri ufficiali di stato maggiore descrive così tale sottodisciplina:
Con l'espressione "terreno" si intende una parte della superficie terrestre comprensiva di tutti gli oggetti immobili che vi si trovano sopra. Il terreno costituisce lo scenario della strategia di guerra e condiziona sommamente il movimento, lo schieramento, il combattimento della truppa; in ogni impresa bellica la conoscenza del terreno è quindi di estrema importanza, anzi indispensabile. Lo studio militare del terreno è la scienza che ci insegna a riconoscere correttamente il terreno,. a orientarvisi, a giudicarne in modo adeguato l'idoneità a scopi militari e a riferirne a voce, per iscritto o attraverso disegni in modo tale che chiunque possa farsene una chiara immagine, oltre che saper leggere e giudicare la rappresentazione approntata da altri. [2]
La conoscenza del terreno è una conditio sine qua non del conflitto bellico. Se non decide da sola l'esito della prova di forza nella misura in cui sonon in gioco anche la validità delle armi, l'intelligenza, la mancanza di scrupoli, il coraggio e altro ancora, la scarsa conoscenza del terreno può però avere effetti letali. «Per usare una carta in combattimento è necessario in generale saper leggere le carte alla perfezione.» [3]
Saggiare, misurare e ispezionare il terreno per lo scontro bellico è dunque una delle condizioni fondamentali per la nascita della cartografia; altre sono il commercio, le scoperte, la navigazione in mare, i pellegrinaggi, il rilievo di terreni e paesaggi.
Il nesso tra guerra e cartografia è dato e confermato da molti elementi. Il braccio di ferro "ha luogo", ovvero c'è un teatro che ha la sua rilevanza, un territorio che deve essere padroneggiato, minato, occupato, controllato se si vuole sconfiggere l'avversario. Le azioni militari hanno un preambolo e un epilogo; richiedono il trasporto di grandi contingenti di truppe, non se la cavano senza la logistica dunque senza il "controllo dello spazio" su larga scala. L'intero lessico dello scontro militare è legato al luogo e allo spazio: si parla di punti strategici, terreni, avamposti, fronti, linee di collegamento, postazioni, terrapieni, retrovie, schieramenti, formazioni e così via.
Quasi ovunque la geografia civile è derivata da quella militare, la cartografia civile dalla militare o, comunque, i loro nessi sono oltremodo importanti ed evidenti. Le transizioni sono fluide. Yves Lacoste ha richiamato l'attenzione sul ruolo pionieristico del settore militare per la nascita della cartografia. [4] La misurazione topografica del continente nordamericano seguì la colonizzazione bianca, che fu una cacciata compiuta con le armi, anzi uno sterminio delle popolazioni autoctone. Molti rilevamenti topografici - come quelli della Scozia o della costa meridionale dell'Inghilterra - vennero fatti a causa di un conflitto militare: il primo fu la battaglia di Culloden nel 1746, il secondo la minaccia di Napoleone. L'instaurazione del dominio sull'India è impensabile senza la misurazione del subcontinente indiano. Non sarebbe stato possibile condurre le guerre moderne come guerre di massa senza milioni di carte: il solo Map Service statunitense ne produsse circa cinquecento milioni durante la seconda guerra mondiale. La riproduzione dello svolgimento delle battaglie e la ricostruzione dei combattimenti nella stampa di massa non potevano più fare a meno delle illustrazioni cartografiche. Gli scontro bellici, come la guerra di secessione americana oppure il conflitto franco-tedesco, hanno dato impulsi notevoli allo sviluppo della cartografia. L'accademia militare statunitense di West Point fu a lungo antesignana anche per lo sviluppo della cartografia civile, mentre al contrario le istituzioni civili, come la sezione dedicata alle mappe della New York Public Library, sono state impegnate di continuo per generare sapere cartografico utile alla guerra. [5] Helmut von Moltke (1800-1891), capo di stato maggiore della Prussia, fu fortemente impressionato da Carl Ritter, ricevette la sua formazione cartografica al Bureau topografico dello Stato maggiore e con le sue conquiste di Costantinopoli e del Bosforo calcò una terra di nessuno dal punto di vista geografico. [6] «Difficile trovare un capo dell'esercito che non abbia portato a termine la sua scuola di topografia.» [7] La tradizione cartografica, in alcuni paesi particolarmente sviluppata, ha spesso un retroterra militare - per esempio la solida tradizione cartografica ungherese non è comprensibile senza la storia della riconquista del bassopiano pannonico durante le guerre ai turchi protrattesi per secoli. [8] Simili considerazioni si possono fare anche sulla ragguardevole tradizione della cartografia militare russo-sovietica e la sua funzione pionieristica per la cartografia civile.
Che le carte militari siano affidabili o meno è una questioni di vita o di morte. Ne vanno di mezzo migliaia di vite umane, vittoria o sconfitta. Perciò le carte militari - soprattutto quelle che riproducono fortezze, ponti, zone di frontiera, passi - vengono considerate segreto di stato e come tali custodite. Le raccolte di carte erano conservate in sezioni di massima sicurezza e coperte da una totale segretezza. «Se una pila di carte del genere andava perduta interamente o in parte, la truppa si ritrovava tradita e venduta.» [9] Consegnarle poteva comportare l'accusa di alto tradimento e la pena capitale. La falsificazione di carte e la disinformazione cartografica sono sempre state armi essenziali. Negli stati totalitari, come l'Unione Sovietica stalinista, la cartografia era un mestiere rischioso, per non dire che poteva costare la vita, in quanto destava facilmente il sospetto di sabotaggio o spionaggio. Per decenni nell'URSS disegnare carte fu un segreto di Stato. Carte delle linee costiere, corsi dei fiumi, tracciati stradali e ferroviari, il rilevamento di determinato edifici, ponti, centrali elettriche, dighe di sbarramento e confini scomparivano del tutto dall'uso pubblico. Neanche nelle società "occidentali" è permesso o gradito fotografare e mappare certi siti d'interesse militare. Tali divieti e obblighi sono rimasti intatti persino nell'epoca della fotografia satellitare ad alta definizione.
Le rappresentazioni cartografiche hanno rivestito un ruolo centrale nella guerra psicologica durante la guerra fredda. I sovietici producevano sistematicamente piante di città false in cui mancavano strade e palazzi mentre gli americani elaboravano le piante delle metropoli sovietiche più precise di quei tempi. Si giunse così alla graduale scomparsa delle rappresentazioni cartografiche esatte e di conseguenza, si potrebbe dire, alla scomparsa della memoria topografica di un'intera società che non possedeva più un'idea adeguata e viva di se stessa, dei propri confini, di assi principali e centri. Qualunque visitatore dell'Unione Sovietica nella sua ultima fase ha vissuto sulla propria pelle la perdita di una rappresentazione cartografica adeguata. Non esistevano più piante della città anche solo grosso modo corrette e significative. Le carte esposte nei vagoni ferroviari mostravano il paese che si stava attraversando non nel complesso, ma sempre soltanto lungo il corridoio delle stazioni che venivano toccate dal treno - il che produceva una angusta visione da tunnel del "vasto Paese". Eppure la militarizzazione della cartografia, dunque la rappresentazione della superficie terrestre nell'ottica della schermaglia militare e della riservatezza, è in ultima analisi soltanto l'interpretazione adeguata di una società che si crede in stato di assedio permanente e ininterrotto. Ciò che un tempo era iniziato come conoscenza del terreno, come accertamento - necessario alla sopravvivenza - delle condizioni di uno scontro di rilievo politico internazionale, culminò in una sorta di "cartografia della paranoia". Era l'indizio di una progressiva perdita di realtà, perdita che fu a sua volta una delle ragioni del definitivo crollo del sistema.
Note:
[1] Mappa di Sarajevo: Sudada Kapi, Ozren Pavlovi, Drago Resner, Nihad Kresevljakovi, Emir Kasumagi, Sarajevo, 1996. [2] Terrainlehre, 1. [3] M. Eckert-Greifendorff, Kartographie. Ihre Aufgaben und Bedeutung fur die Kultur der Gegenwart, Berlin 1939, p.335. [4] Y. Lacoste, Geographie und politisches Handeln. Perspektiven einer neuen Geopolitik. Berlin 1990. [5] Cfr. S. Ludman-Bliebe, "Room Service! The Map Division at 42nd Street and Fifth Avenue Serves New York's Throngs", in: Mercator's World, settembre-ottobre 1999. [6] Su Moltke cfr. anche: L. Zogner (a c. di), Carl Ritter in seiner Zeit, Staatsbibliothek Preussischer Kulturbasitz, cataloghi della mostra 11, Berlino 1979. [7] M. Eckert-Greifendorff, op. cit. p.327. [8] Conversazione con il prof. Istvàn Klinghammer, Budapest, gennaio 2001. [9] M. Eckert-Greifendorff, op. cit. p.327.