Saramago. 4 storie.
Creato il 02 novembre 2011 da Mapo
Non resisto alla tentazione (agevolata dal fatto che qui si trova l'opera intera che mi evita un laborioso lavoro di trascrizione) e mi/vi regalo gli ultimi 4 brani tratti dalla raccolta di cronache del premio nobel portoghese. Il primo narra di un incontro inaspettato in spiaggia che da paradosso quasi onirico diviene vicenda esilarante. Il secondo è uno spaccato duro e crudo che lascia intendere quanto possano essere stupide e retrograde certe posizioni razziste che, ancora oggi, sono ben lungi dall'essere estirpate. Il terzo è dedicato ai viaggiatori, così come ai turisti che ancora si sentono esploratori di qualcosa in un mondo che appare già tutto esplorato. L'ultimo è la triste descrizione di quello che accade nelle nostre province e nelle campagne di questa Lombardia sempre meno verde. Cinzia dice sempre che un bambino nato e cresciuto a Milano ignora come sia fatto un gallo e, dovendolo disegnare, lo farebbe probabilmente incellophanato in qualche pacco-famiglia dell'Aia. Credo che abbia ragione.
Un incontro sulla spiaggiaIl caso è strano, ma a pensarci bene non più strano di una qualsiasi di quelle piccole cose che ci accadono ogni giorno e che, proprio perché sono piccole e ripetute, finiscono col perdere per noi di significato. E non parlo di meraviglioso, che è moneta logora, se non falsificata. Del resto, negli ultimi tempi mi sono successi parecchi casi strani che uno più uno meno nulla aggiungono né tolgono alla mia reputazione.Il luogo non ha niente di stravagante. Scelga il lettore una spiaggia qualunque e mi immagini (o si immagini, se gli è più facile) seduto al sole, a ricevere dall’aria e dalla luce i benefici ammessi dalla nostra buona volontà. Intorno ci sono le persone che si trovano di solito sulla spiaggia: bambini, adolescenti, gente cresciuta e gente che non crescerà mai. Ci sono bei corpi, altri meno, nuotatori audaci, altri timidi – e tutto si confonde in azzurro e verde, alghe e aromi forti, grida di allegria, nel calore che scende dal cielo e sale dalla sabbia. È bello. Sto seduto, a ricevere la mia quota di salute. Guardo il mare, un po’ malinconico (io, non il mare), e comincio a pensare che è ora di fare il bagno. Sto iniziando il movimento che mi porterà nell’acqua, quando sento che qualcuno viene a sedersi accanto a me. Mi sembra un abuso quell’intimità. Faccio finta di niente, non guardo, ma sospendo l’impulso di alzarmi: sono una persona educata, non mi piace offendere. In questa indecisione, sento d’improvviso la mano posarsi sulla mia spalla. Guardo di lato: è una scimmia. Non sono pauroso, lo giuro, ma imbattersi così di punto in bianco in uno scimpanzè (è uno scimpanzè di taglia media), chi potrebbe evitare un soprassalto? Ma l’animale sembra pacifico. Giurerei quasi che sul suo muso c’è un’ombra di sorriso. Il mio primopensiero(appenamiscopro capace di pensare) è cercare il padrone della scimmia. Guardo intorno, la spiaggia è deserta. Fatemi il favore di non sorridere. È un affare serio, e non ho nessuna colpa se queste cose succedono solo a me. La spiaggia è deserta, ripeto. Non so per quale magia sono scomparsi tutti i miei vicini. Ho il mare davanti a me e a fianco una scimmia. Che fare? Sorrido pallidamente, guardo di nuovo e mi rassegno. Lo scimpanzè mi prende le mani e le stringe. Lo fisso dritto negli occhi e resto di sasso per lo stupore: se quel che vedo non sono lacrime, è perché di lacrime non m’intendo. La scimmia si avvicina, senza lasciarmi le mani. E io, che ho urgente bisogno di fare qualcosa, comincio a parlare. Di che? Del mare, della spiaggia, del sole, delle rocce a fior d’acqua, dei gabbiani che passano in silenzio, delle nuvole bianche e leggere che galleggiano nell’aria e lentamente si dissolvono. Parlo della gente che era lì poco prima, dei bambini ridenti, degli adolescenti in fiore, degli adulti stanchi ma ancora con delle speranze. Parlo degli uomini in generale, del mondo, della pace e della guerra, dell’amore e dei suoi capricci, dei fiori e delle messi, del lavoro e del sogno – che so io? La scimmia ascolta. Risponde come può, stringendomi le dita. E io continuo. E quando non ho più niente da dire, parlo di me. E allora ripeto tutto quanto avevo detto prima. Poi c’è un grande silenzio. So che sono solo. La mano quasi umana cessa di tenere la mia. Mi alzo. La spiaggia è di nuovo popolata. Che è successo? Avrò sognato? Cerco il mio scimpanzè e vedo solo persone come me. Ho sognato, di sicuro. Mi accingo a sorridere di me stesso, ed è in quel momento che guardo a terra. Non ho sognato. Nitide, impresse, ci sonoorme inconfondibili. E sulla sabbia umida, che un’onda minaccia di lontano, leggo parole scritte da un dito maldestro: “Essere uomo è questo?” L’onda corre sull’acqua, si arrotola, so quel che accadrà, voglio evitare l’inevitabile, voglio la prova – e l’onda si rompe, si espande, scivola sulla sabbia, cancella le parole, l’interrogativo, lo stupore. Rimango abbandonato. Avevo tra le mani un segreto (di che cosa, non so) e ora me ne stavo li, vuoto, solitario, derubato. Ma è successo, lo giuro. Ed è bene che il lettore creda che queste cose accadono. Ho bisogno della sua compagnia.Jose SaramagoDi questo mondo e degli altriPag. 49Ricetta per uccidere un uomo
Si prendono qualche decina di chili di carne, ossa e sangue, secondo parametri adeguati. Si dispongono armoniosamente in testa, tronco e membra, si riempiono di viscere e di una rete di vene e nervi, avendo cura di evitare errori di fabbricazione che siano pretesto alla comparsa di fenomeni teratologici. Il colore della pelle non ha alcuna importanza. Al prodotto di questo delicato lavoro si dà il nome di uomo. Si serve caldo o freddo a seconda della latitudine e della stagione dell’anno, dell’età e del temperamento. Se poi se ne vogliono lanciare prototipi sul mercato, gli si infondono alcune qualità che li distingueranno dalla massa: coraggio, intelligenza, sensibilità, carattere, amore per la giustizia, bontà attiva, rispetto per il prossimo e per il distante. I prodotti di seconda scelta avranno, in maggiore o minor grado, l’una o l’altra di queste virtù di attributi positivi, parallelamente agli opposti, in genere predominanti. La modestia impone di non ritenere fattibili prodotti integralmente positivi o negativi. Ad ogni modo, si sa che anche in questi casi il colore della pelle non ha alcuna importanza. L’uomo, classificato nel frattempo con un’etichetta personale che lo distinguerà dai suoi simili, usciti come lui dalla catena di montaggio, viene posto a vivere in un edificio cui si dà, a sua volta, il nome di Società. Occuperà uno dei piani di quest’edificio, ma raramente gli sarà consentito di salire la scala. Scenderla è permesso e a volte facilitato. Nei piani dell’edificio ci sono molte abitazioni, designate ciascuna o da ceti sociali o da professioni. La circolazione avviene per canali detti abitudine, usanza e preconcetto. È pericoloso andare contro la corrente dei canali, sebbene alcuni lo facciano per tutta la vita. Costoro, nella cui massa carnale si trovano fuse le qualità distintive dei prodotti che rasentano la perfezione, o che hanno optato deliberatamente per queste qualità, non si identificano dal colore della pelle. Ce ne sono di bianchi e di neri, di gialli e di bruni. Sono pochi i ramati, ma solo perché si tratta di una serie quasi estinta.Il destino ultimo dell’uomo è, come si sa fin dall’inizio del mondo, la morte. La morte, in quel preciso momento, è uguale per tutti. Non però quanto la precede immediatamente. Si può morire con semplicità, come chi si addormenta; si può morire attanagliati da una di quelle malattie di cui eufemisticamente si dice che “non perdonano”; si può morire sotto tortura, in un campo di concentramento; si può morire volatilizzati all’interno del sole atomico; si può morire al volante di una Jaguar o investiti da essa; si può morire nel bagno o dal barbiere; si può scegliere la propria morte, e questo si chiama suicidio; si può morire di fame o di indigestione; si può anche morire di un colpo di fucile, al crepuscolo, quando c’è ancora la luce del giorno e non si pensa che la morte sia vicina. Ma il colore della pelle non ha alcuna importanza. Martin Luther King era un uomo come ognuno di noi. Aveva le virtù che sappiamo, sicuramente dei difetti che non ne sminuivano le virtù. Aveva un lavoro da compiere – e lo compiva. Lottava contro le correnti dell’abitudine, dell’usanza, del preconcetto, immerso in esse fino al collo. Finché arrivò il colpo di fucile a ricordare ai distratti quel che siamo e che il colore della pelle ha molta importanza.
Jose SaramagoDi questo mondo e degli altriPag. 61
Le vacanzeOggi parlerò delle vacanze: è tempo loro, come si dice che è tempo di ciliegie. Un altro albero dà questi frutti, e lo stesso albero li coglie: i giorni ce le portano, i giorni ce le tolgono. Così scorrendo passa il tempo, ma all’approssimarsi delle vacanze è tutto un desiderarle, fare progetti, cullare illusioni. Arrivato il momento, abbiamo davanti a noi uno spazio vuoto che ci aspetta, come una grande sala che dobbiamo occupare. Che ci metteremo dentro? C’è chi passa qualche giorno al suo paese, chi si arrischia all’estero, chi conta i centesimi per un ombrellone in spiaggia. C’è anche chi non esce di casa e resta a guardare, tutto il giorno, la strada dove abita. Sia come sia, i giorni delle vacanze acquistano d’improvviso un valore che gli altri non avevano. Sono giorni totalmente disponibili, alla mercé della fantasia e delle possibilità di ciascuno. Il tempo si è scollegato dal meccanismo dell’orologio, è una dimensione non delimitata, informe, un pezzo di argilla davanti alle mani che lo modelleranno. Le vacanze sono anche un’opera di creazione. Non stupisce, dunque, che al loro approssimarsi un subito timore ci prenda. Quell’intervallo tra due rappresentazioni, quella radura circondata da foresta nera su ogni lato – che ne faremo dell’argilla del tempo? Se torniamo al paese, bastano due giorni per rivedere i conoscenti, i luoghi e la famiglia; se andiamo all’estero, che risultato trarremo da quattromila chilometri in otto giorni? E se andiamo al mare? E se restiamo a casa? E poi, ci sono un sacco di complicazioni: orari, pasti indigesti, notti mal dormite, vecchie storie di famiglia, stanchezza di viaggi andata-e-ritorno, rabbia di stare rintanati al chiuso. Ah, le vacanze. Quando finiscono, ci restano ricordi sbiaditi, come di un vecchio sogno. Nulla è accaduto come l’avevamo immaginato: è piovuto, ci è venuto mal di denti, i musei erano troppi, i paesaggi non erano così belli come in fotografia, se ne è andato un mucchio di soldi – o non ce ne sono stati da spendere. E ricomincia il lavoro in rigoroso stato di collera, perché peggio dell’aver avuto e non aver più è restare al di qua di quel che si è sognato. In fondo, questo sogno, tante volte rinnovato e altrettante frustrato, è appena il desiderio inconscio di ripetere le uniche vacanze meravigliose che abbiamo avuto: quelle dell’infanzia – mesi infiniti per i quali non c’erano progetti, perché allora non si facevano e perché, prima ancora di viverli, erano già realizzati. Il mondo era tutto da scoprire – e il mondo entrava nel cerchio che gli occhi tracciavano. Due alberi e uno stagno: l’Europa. Un cammino tra le rocce: l’America. O l’Asia. O l’Africa. Nuotare o navigare nel fiume era lo stesso che attraversare l’oceano. E scoprire un nido abbandonato valeva quanto la caverna di Alì Babà. Per questo oggi le vacanze non possono essere riposo. Vogliamo, a viva forza, scoprire il mondo, come se fossimo noi i primi: altro non significa la nostra soddisfazione quando costringiamo un amico a confessare di non aver visto, al Louvre, quella statua greca che a nostro avviso vale da sola il viaggio. È tutto un’illusione. Il mondo è stato visto e imparato a memoria. Nessuno scoprirà l’Europa, e la statua greca, alla fine, è una misera copia romana. Ma che importa? Dichiaro qui solennemente che quest’anno le mie vacanze saranno, quanto a rivelazione e scoperta, uguali a quelle in cui, con gli occhi nuovi dell’infanzia, mi capitò di trovare una fonte che nessuno conosceva. E se non sarà quest’anno, sarà per il prossimo. Perché la fonte sta lì.
Jose SaramagoDi questo mondo e degli altriPag. 93
Le terreCome un essere vivente, le città crescono a spese di quel che le circonda. Il grande alimento delle città è la terra che, presa nella sua accezione immediata di superficie limitata, acquista il nome di terreno, sul quale, fatta questa operazione linguistica, diventa possibile costruire. E mentre noi andiamo a comprare il giornale, il terreno sparisce, e al suo posto sorge l’immobile. Ci fu un’epoca in cui questa città cresceva lentamente. Qualche palazzo di periferia aveva il tempo di perdere il segno della novità prima che un altro venisse a fargli compagnia. E le strade davano direttamente sui campi, sui poderi abbandonati, dove pascolavano autentiche greggi di montoni, custodite da autentici pastori. Questo paese diverso, punteggiato di olivi nani, di fichi contorti, di rozzi muri in rovina e, di tanto in tanto, di solitari cancelli spalancati sul vuoto – erano le terre. Le terre non si coltivavano. Davano, inerti, il loro addio alla fertilità, sopportavano qualche pausa intermedia tra la morte e l’inumazione. La loro grande vegetazione, il loro grande trionfo di flora, era il cardo. Se gli avessero dato spazio, il cardo avrebbe coperto di verde cenere il paesaggio. E dai piani più alti dei palazzi la vista era malinconica, uniforme, come se in tutto ciò vi fosse una grande ingiustizia e un vago rimorso. Ma le terre erano anche il paradiso dei bambini suburbani, il luogo d’azione per eccellenza: lì si facevano scoperte e invenzioni, lì si tracciavano piani, lì l’umanità in calzoncini già si divideva, a imitazione degli adulti. E c’erano ragazzi immaginosi che davano nomi agli accidenti topografici, e altri, molto sensibili, che si intristivano quando, un giorno, rudi uomini silenziosi cominciavano a scavare buche nel posto dove era arso il falò rituale del gruppo, il fuoco attorno al quale si disponevano, in grave deliberazione, volti attenti e ginocchia scorticate. I gruppi avevano capi autoritari, piccoli tiranni che un giorno inesplicabilmente venivano destituiti, messi al bando, e andavano a cercar fortuna in altri gruppi, dove non riuscivano a mettere radici. Ma la grande disgrazia era quando un ragazzo cambiava quartiere. Il gruppo si cicatrizzava in fretta, il ragazzo invece, con l’animo pesante, percorreva chilometri per rivedere i suoi amici, i luoghi felici, e ogni volta era più difficile ricostituire l’antico vincolo, finché sopraggiungevano l’indifferenzae l’ostilità e il ragazzo scompariva definitivamente, forse aiutato da nuove amicizie e nuove terre. Oggi la città cresce così in fretta che lascia indietro, irrimediabilmente, le infanzie. Quando il bambino si prepara a scoprire le terre, esse sono ormai lontane, ed è un’intera città che si interpone, aspra e minacciosa. I paradisi vanno allontanandosi sempre di più. Addio, fraternità – ciascuno per sé. Ma è destino degli uomini, a quel che sembra, opporsi alle forze dispersive che essi stessi mettono in movimento o che insorgono dentro di loro. La città si svuota dove prima era il suo nucleo, nel seme che dovrebbe essere la sua continuità. E allora ci si accorge che le terre sono dentro la città e che tutte le scoperte e le invenzioni sono ancora possibili. E che la fraternità rinasce. E che gli uomini, figli dei bambini che furono, ricominciano l’apprendistato dei nomi delle persone e dei luoghi e di nuovo si siedono attorno a un falò, parlando del futuro e di quel che a tutti importa. Perché nessuno di loro muoia invano.
Jose SaramagoDi questo mondo e degli altriPag. 139
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