Magazine Cucina
Se qualcuno mi chiedesse di descrivere la voce della Sardegna, quella vera, che non ha l'accento del cumenda milanese o del multimiliardario russo, io risponderei: ha il suono delle Launeddas.
Che è lo stesso suono che mi porto dentro dal momento in cui, durante quel viaggio di cui vi ho già cominciato a raccontare nel capitolo primo, ho avuto il privilegio e la fortuna di incontrare il Maestro Luigi Lai.
Nome che per buona parte del mondo non significa nulla ma per chi la musica la ama e la segue, rappresenta una sorta di piccolo miracolo nell'arte di Euterpe.
San Vito è un paese di 4000 anime, situato all'ombra del Monte Lora la cui silhouette ricorda il profilo di una donna dormiente.
Non ha monumenti particolari né storie per cui essere ricordato.
Non ha palazzi storici né piazze importanti che si aprono come fiori d'estate al centro di un borgo.
E' un piccolo paese come molti in Sardegna, circondato da una natura felice fatta di corbezzoli, sughere e macchia mediterranea ed una campagna ricca di agrumeti e vigneti.
A parte questo, per me, per la Patty che qui scrive senza troppi peli sulla lingua, S. Vito ha un tesoro unico e preziosissimo ed è la musica del Maestro Lai, il poeta delle Launeddas.
Se è vero com'è vero che il nostro corpo non si nutre solo di cibo, il mio secondo nutrimento è la musica.
Considero l'incontro con questo grande musicista, il dono più bello che la Camera di Commercio di Cagliari nella persona di Giuseppina Scorrano (innamorata profondamente delle Launeddas) potesse farci.
Questo strumento misterioso ha una tradizione millenaria di cui però non si conoscono le origini.
Composto da 3 canne, una lunga (che produce un suono basso) detta "su tumbu", legata ad una canna media, "sa mancosa", quindi infine la più piccola, indipendente dalle prime due e che ha il suono più acuto: è lei quella che esegue il tema musicale, chiamata "sa mancosetta".
Le tre canne sono dotate all'imboccatura di piccole ance (linguette sottili che sollecitate dal fiato vibrano producendo il suono) e possono essere riprodotte in diverse grandezze per diverse tonalità.
Non esiste una "liuteria" per le launeddas: è il musicista a costruirsele.
E lo fa per tutta la vita, in una estenuante ricerca di perfezione, suono, intonazione, senza per altro raggiungerla mai completamente.
Come avrete capito, le Launeddas sono uno strumento a fiato ma hanno una particolarità che le rende diverse da qualsiasi altro strumento dotato di ancia: la cassa armonica è la bocca del musicista.
Se pensate ad un oboe, un clarinetto o un sassofono, il bocchino e l'ancia consentono al musicista di immettere fiato nello strumento. La vibrazione dell'ancia produce l'onda sonora che ruotando all'interno dello strumento (la cassa armonica) si trasforma in suono.
Nel caso delle launeddas, è la bocca del musicista il luogo in cui si sviluppa il suono. L'imboccatura dello strumento è posta completamente all'interno della bocca, le ance vibrano sotto il palato ed il fiato viene modulato dalle guance in un ciclo continuo come avviene in una cornamusa, solo che lì c'è una sacca di pelle a contenere il fiato del musicista.
Immaginare tutto questo per me è di una difficoltà immensa, non che scoprire che Luigi Lai ha dedicato la sua esistenza a mantenere viva una tradizione che si sta perdendo.
Durante il breve tempo che siamo stati nello studio del Maestro, ho ripreso un piccolo video che mi piacerebbe vedeste, solo per capire quanto suggestivo e commovente sia il suono di questo strumento. Note che hanno una forza evocativa incredibile, un che di ancestrale in grado si smuovere emozioni lontane.
Vi confesso di essermi ritrovata con gli occhi umidi al termine del brano, per altro scritto dal Maestro Lai. Sono convinta che vi incanterà.
Dopo la musica, è stato tempo di dolcezza.
Giunti al Centro Ippico del Sarrabus, situato a Muravera, in un paradiso di agrumi, olivi e buganvillee inondati dal sole, abbiamo osservato un altro tipo di abilità, che è quella di trasformare un frutto in una marmellata deliziosa, attraverso le mani esperte delle padrone di casa che ci hanno incantato con la loro velocità e destrezza.
Gelatina di mele cotogne, marmellata di arance, miele dai mille profumi, verdure conservate sott'olio dai sapori autentici e delicati. Alla presenza del Gal Sole Grano Terra, abbiamo potuto osservare come l'entusiasmo e la passione di pochi possano costruire una rete di condivisioni e progetti a valorizzazione di un territorio e dei suoi prodotti.
Il senso di benessere e serenità trasmesso da questo luogo sono indubbi e se dovessi consigliare una vacanza da queste parti lo farei con grande piacere.
Per chi ama i cavalli, la natura incontaminata, i cibo che sa di casa, ed anche, perché no, gli amici disinteressati.
Il viaggio partito sulle note di un'arte antica, ha proseguito verso terre disabitate e brulle dove solo i pastori hanno il coraggio di fermarsi, per poi concludersi nel più classico dei modi, con una cena da "almeno una volta nella vita", al laboratorio del gusto dello chef Perella a Villasalto.
E qui ho serie difficoltà a raccontare perché quanto abbiamo assaggiato riesco a ricordarlo solo attraverso le foto rubate....ma quei ravioli, o mamma, ci hanno lasciate tutte senza parole.
E visto che le mani in pasta qui amiamo mettercele un po' tutte, per non perdere il vizio e per vincere la nostalgia, ho voluto provare a riprodurre un formato di pasta conosciutissima, figlia dell'isola tanto amata, e che spero di avere rispettato nella sua essenzialità.
Sul condimento mi sono limitata ad un ragù a base di salsiccia, ma voi potrete scegliere il condimento che più vi intriga.
L'importante è che proviate a fare i Malloreddus con le vostre mani.
Is Malloreddus, come li chiamano i sardi, o gnocchetti sardi come più facilmente li chiamiamo noi, sono un formato di pasta di sola semola ed acqua, che non richiede una grandissima manualità, se non lo sforzo di preparare un impasto che sia abbastanza sostenuto e poi divertirsi a rigare gli gnocchi con l'uso del pollice. Per i curiosi, il significato di malloreddu, al singolare, è vitellino!
Ingredienti per 4 persone
400 g di semola (io ho usato dell'ottima Senatore Cappelli)
250 ml di acqua in cui avrete messo in infusione per almeno un'ora un pizzico di pistilli di zafferano
Formate la fontana sulla spianatoia.
Cominciate a versare l'acqua filtrata per eliminare i pistilli, e mescolate con la mano per incorporare la semola. Aggiungete acqua via via che incorporate ma state attenti a non aggiungere troppo acqua per non avere una pasta troppo morbida.
L'impasto dovrà essere elastico ma sostenuto e dovrete lavorarlo a lungo per aumentarne l'elasticità, fino a che non avrete ottenuto una bella palla liscia e vellutata che lascerete riposare avvolta nella pellicole min 30 minuti.
A questo punto tagliate la pasta a pezzi e rollatela per ottenere dei cordoncini dal diametro inferiore al cm. Tagliateli con una lama in pezzettini lunghi non più di 2 cm.
In Sardegna dicono che non devono essere più lunghi di un fagiolo.
Adesso prendete un pezzetto di pasta e schiacciatelo con il dito pollice sul rigagnocchi seguendo il lato lungo fino a che la pasta si arricciolerà su se stessa formando il tradizionale gnocchetto.
Fate asciugare la pasta sulla spianatoia. Non dovreste avere bisogno di passarla nella semola in quanto la pasta non appiccica.
Cuoceteli in abbondante acqua salata e dal momento che salgono a galla fateli cuocere c.ca 3 minuti. Assaggiate e condite a vostro piacimento.
Tornerò ancora a parlare di Sardegna nel terzo ed ultimo capitolo di questo viaggio, che spero non vi abbia annoiato troppo ;)
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