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"Come in uno specchio" è il primo film della c.d. "Trilogia del silenzio di Dio" o anche "Trilogia religiosa", della quale quasi 2 anni fa ormai vidi l'ultimo, "Il silenzio". Trilogia che ora desidero invece completare, con la ravvicinata visione anche di "Luci d'inverno", cui poi seguirà una novità per il blog che ora non anticipo.
Su questo film (vincitore nel 1962 dell'oscar come miglior straniero e del premio O.C.I.C. - Office Catolique International du Cinema - a Berlino), e su tutta la trilogia citata si sono scritti trattati copiosi. Parlerò più di mie sensazioni personali, mentre tra i vari articoli letti in giro consiglio questo di Marco Loprete, bellissimo ed esaustivo quanto occorre, che ringrazio.
Ambientato interamente su una piccola isola ("isola di Fårö" nel Mar Baltico, che Bergman più avanti acquisterà e andrà a viverci il resto dei suoi giorni) il film vede 4 protagonisti. Anzitutto Karin (Harriet Andersson), giovane donna affetta da malattia mentale, ritornata da non molto da un ricovero nel quale ha subito anche elettroshock. Suo marito Martin (Max von Sydow), decisamente più maturo e innamoratissimo di lei nonostante le grosse difficoltà causate dalla convivenza con Karin. Il fratello di Karin è Minus (Lars Passgård), ancora studente e in pieno sconvolgimento ormonale adolescenziale, ama la sorella alla follia, fino al punto di provare un conflitto interiore che lo porta a pensieri incestuosi. Infine David (Gunnar Björnstrand, ai tempi Bergman non girava quasi nulla senza di lui) il padre di Karin, artista/scrittore vedovo lì in visita dopo molto tempo di assenza dai figli.
E' lo stesso Bergman a descrivere il "percorso" della trilogia: "trattano una riduzione: Come in uno specchio: certezza conquistata. Luci d'inverno: certezza messa a nudo. Il silenzio – silenzio di Dio – la copia in negativo". Loprete sottolinea come questo può apparire un percorso inverso al procedimento normale, che è quello del dubbio/ipotesi per poi arrivare ad una certezza/legge. Sarebbe però il c.d. procedimento scientifico, che manifesta tutti i suoi limiti infatti nella nostra "cultura occidentale" quando affronta temi metafisici o filosofico/religiosi tanto da dover poi necessariamente porre dogmi, paletti dove la ragione deve fermarsi. Bergman parla di "certezza conquistata", ma quale è? e chi la conquista?
Dialoghi e discorsi curatissimi, c'è tutto il teatro di Bergman in questi 3 Kammerspielfilm (cinema da camera). Dimenticate tutto ciò che può essere ardito in termini di movimenti macchina ed espedienti narrativi, qua tutto segue lineare tra un impianto scenico e l'altro l'ordine naturale del tempo. Al massimo un carrello per seguire un movimento, qualche campo aperto in camera fissa e tante riprese d'interni, persino l'isola appare come un luogo chiuso certi momenti. E' come se le scene fossero tutte in presa diretta con la macchina che s'intrufola. Primi piani intensissimi curano il dettaglio di una pupilla che cambia fuoco, una narice che si dilata. C'è una sofisticata attenzione ad ogni appena percettibile variazione d'umore. La macchina da presa è come un occhio movibile su un palcoscenico, ma un occhio umano, non fa nulla d'impossibile.
E' su Karin più di ogni altro personaggio, sulla sua schizofrenia imprevedibile, che questa modalità filmica si apprezza. Personaggio centrale insieme al padre David a mio parere, del quale poi dirò. Solo Karin nomina sempre e a più riprese Dio, ne è alla ricerca convinta di doverlo incontrare nella sua "seconda realtà" ma quando questo incontro avverrà sarà tragico, si presenterà nella sua immaginazione con le mostruose fattezze di un ragno enorme che la vuole possedere. Cito da wiki: "Il titolo del film è preso da un verso della Prima lettera ai Corinzi, dove Paolo di Tarso dice: "Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia" (Capitolo 13, Verso 12)" (n.b.: su wiki mentre scrivo i ruoli interpretati da Max e da Gunnar sono invertiti). Sono troppo sempliciotto a pensare che questo messaggio è diretto? Karin, che pure con la sua dolcezza e la sua malattia ispira pietà e compassione, è di fatto il simbolo dell'approccio negativo a Dio, che ad un approccio pazzo si manifesta terribile. Karin stessa converrà in un successivo e probabilmente definitivo ricovero, la sua malattia è cronica, lo ha scoperto leggendo il diario del padre, lo sente dentro di sé e anche qua leggo personalmente un messaggio realisticamente duro: dal fanatismo religioso non se ne esce, ti tira dentro in una spirale che ha del demoniaco, aggettivo non casuale.
Martin, il marito dolce e premuroso, inguaribilmente innamorato pur sapendo di percorrere una strada chiusa e senza sbocchi, è un'altra figura che per quanto minore non è messa lì a caso. E' forse il personaggio più comune dei 4, non sa darsi pace, non ha i mezzi intellettuali per farlo detto fuori dai denti. Usa solo il cuore direbbe qualcuno, oggigiorno questi minor habens sono di moda, fanno scendere le lacrimucce nelle fiction di prima serata, il popolino ci si identifica, ma rappresentano un falso sacrificio, la loro è solo una facile soluzione dettata da incapacità sia razionale che morale. Persino Karin lo capisce, è lei che pensa di doverlo curare, solo che le è inutile e controproducente il bisogno che lui ha del suo amore, che non è in grado di corrispondergli così come non può controllare i suoi momenti di sdoppiamento. Eppure anche questi "martin" hanno un loro ruolo, concediamoglielo, nel senso che portano avanti le cose, si occupano dei "doveri", di ciò che è necessario fare per il vivere quotidiano, allora non disprezziamoli e che se ne faccia buon uso, ma nemmeno, anzi guai!, portarli a modello di comportamento. Bergman con un'eleganza unica che comprendi solo alla fine, e non col mio dire tranciante, stronca questo tipo di figura, nulla gli sarà concesso nel finale, solo sofferenza può raccogliere da quel che ha seminato. La legge della vita non ammette ignoranza più di quella degli uomini.
Proseguendo nella mia personale visione dei personaggi, affronto ora quello che secondo me è la chiave dell'enigma, il depositario della sola certezza possibile, e cioè che la chiave verso la comprensione di Dio, leggi: ricerca dei valori spirituali o umanità, risiede in una sorta di "condanna a crescere". Parliamo di David, il padre che volontariamente si allontanò dai figli o meglio da Karin per realizzare quanto sentiva in dovere di fare. Torna da loro con già l'intenzione di allontanarsi, poi cambierà idea. Vive un certo tormento, che non definirei banalmente un senso di colpa, c'è più la consapevolezza di dover colmare una mancanza d'amore espresso, di dover fare pure alla sua età un ulteriore salto in avanti nella sua crescita. David è la ragione per cui dovrò ancora guardare questo film, e forse una sola altra volta non basterà. Karin è la certezza semplice che un approccio sbagliato a Dio produce, come uno specchio, un aspetto della divinità fin bestiale. David invece è la certezza che le "certezze rivelate" di per sé non sono nulla e che ogni manifestazione umana, anche dei sentimenti più intimi, per essere sincera deve essere frutto di un Percorso, parola che ripeto volentieri, non di un diktat. Le verità assunte come tali, non meditate né sofferte, sono inutili e dannose. David ha autocritica e ascolta persino i pistolotti di Martin non senza un po' di sgomento, ma mantenendo un approccio corretto e razionalmente positivo: cosa c'è di vero in quel che mi dice? dove devo agire? Consapevole che quanto aveva fatto fino a quel momento è stato inevitabile, partecipe del proprio agire passato anche se in parte fatalista, sarà lui a realizzare una Crescita, a produrre Valore pur in un contesto del genere. A me ha dato la "certezza" che Un percorso c'è nella vita di chi vuole costantemente migliorare la propria partecipazione alla specie umana. Notare bene che come articolo per la parola Percorso ho usato l'indeterminativo Un, aperto a molteplici soluzioni, e non un categorico Il.
Figura esemplare per me, mi ha toccato profondamente.
Minus, l'adolescente, ha una sua parte logica nel contesto. I suoi slanci fin amorosi verso la sorella lo dipingono all'inizio come un "martin" in erba, solo l'età lo assolve. Di Karin subisce il fascino che ogni umano atipico in qualche modo ha ed esercita sui tipici. Dopotutto lei a un occhio superficiale e credulone potrebbe persino apparire in odore di santità, così come luridi sciacalli senza scrupoli potrebbero sfruttarne le visioni per costruirci luoghi di pellegrinaggio invece che curarla come necessita. Il ragazzo farà i suoi passi e in particolare rappresenterà per David uno specchio di confronto, tornasole del passo concretamente fatto. Il film finisce proprio (mi scuso per lo spoiler, ma è necessario...) con David che si rivolge al figlio dialogando e non semplicemente affidandogli compiti. I titoli di coda partiranno dopo che Minus dirà "Papà ha parlato con me". E' una frase bellissima se si pensa alla incomunicabilità storica di Bergman col padre, pastore luterano rigoroso che coltivò a lungo l'idea che il figlio ne seguisse le orme, ma ho già scritto moltissimo oggi e questo argomento me lo tengo per il prossimo "Luci d'inverno", prestissimo su questi schermi.
Capolavoro da Olimpo in seduta plenaria con applausi a scena aperta.
Robydick
Giusto qualche frame, non sono di grande qualità ma come ricordo vanno bene ugualmente:
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