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Satya e il Sole

Da Fiaba


Mercoledì 14 Novembre 2012 08:04 Scritto da Marzia Bisignani

satya-soleI - IL TRAMONTO SULL’ALBERO

In un tempo in cui solo la luna, i pianeti e le stelle riflettevano barlumi di luce nelle notti più buie, una bimba di nome Satya sedeva sulla cima di un albero sperando che i tramonti non avessero mai fine.

Ogni giorno, all’imbrunire, Satya restava stupita dalla bellezza della luce e dei colori, dalle ombre che ponevano in risalto i contorni della valle, dal distendersi delle colline e dai campi dorati che scintillavano in lontananza.

Nulla le appariva più stupefacente dell’ora del giorno in cui le sfumature dell’arancio, del rosso e del viola coloravano il cielo creando uno spettacolo celestiale.

Dalla cima dell’albero riusciva a vedere tutto, ogni angolo della terra illuminata dai raggi del sole; per la bimba osservare il tramonto rappresentava il momento di gioia più intenso.

Satya desiderava che il sole non tramontasse mai e ogni notte, quando la luce cedeva all’oscurità, piangeva fino alle prime luci dell’alba. Temeva così tanto il buio che nulla poteva risollevarla, neppure la magia di una notte stellata.

Una sera, stanca di piangere, Satya ebbe un’idea. Forse, pensò, se avesse viaggiato in terre molto lontane, avrebbe potuto trovare un luogo dove il sole non tramontasse mai e scoprire così una felicità duratura. Non avrebbe più pianto, allora, perché il sole non avrebbe più dovuto far posto alle tenebre.

Così, il giorno seguente, prima che il sole s’inabissasse come un gioiello sfavillante, Satya lasciò l’albero e si mise in cammino verso la luce. Camminò per diverse ore, viaggiando a lungo attraverso la foresta, quando d’improvviso le apparve un bell’unicorno alato, bianco e dagli zoccoli sfolgoranti.

“Ciao, mi chiamo Narcy”, disse, scuotendo con femminilità la lunga criniera argentea che costituiva chiaramente uno dei suoi vanti di fanciulla alata. “Dove vai?”

“Sto cercando il luogo dove il sole non tramonta mai”, rispose Satya, sfinita per il lungo cammino.

“Ma il sole è qui adesso! Non riesci a vederlo?”

“Sì, ma non splenderà ancora per molto. Presto sarà buio e freddo e non si distinguerà più nulla”.

“Ci sono sempre delle cose belle da vedere”, disse l’unicorno mentre si lucidava gli zoccoli scintillanti e strigliava l’immacolato mantello bianco, “tutto dipende da come le osservi”.

Satya sospirò. Forse l’unicorno aveva ragione ma c’era poco tempo per parlare delle cose belle, pensò. Dopo tutto il sole era la meraviglia più grande! Così si accomiatò dall’unicorno e disse: “Devo andare ora, prima che faccia buio. Arrivederci, piacere di averti incontrato.”

“Aspetta!” esclamò Narcy, volando proprio sopra la bambina, “non puoi arrivarci a piedi!”

“Che intendi?” chiese Satya illuminandosi di un sorriso raggiante, “vuoi dire che potremmo volare fino al sole?”

“Non proprio”, disse l’unicorno allegramente. “Ci bruceremmo!”

“Beh, allora sai come arrivare al luogo dove il sole non tramonta mai?” chiese vivacemente.

“No”, rispose l’unicorno, “se seguiamo il sole però potremo guadagnare tempo”.

“Com’è possibile?” domandò sorpresa.

“Dovremo solo continuare a volare verso ovest. I giorni saranno più lunghi e pieni di luce perché il sole tramonterà più tardi per ogni ora di volo trascorsa”.

“Dovrai volare molto veloce!” osservò Satya

“Alla velocità della luce” scherzò Narcy.

Senza perdere altro tempo, Satya saltò subito sulla schiena dell’unicorno, aggrappata alla sua lunga criniera. Allora Narcy, battendo le bianche ali, si librò in alto verso il cielo mentre Satya si tuffava nell’ignoto.

II -LA LUCE INVISIBILE

Mentre volteggiavano in aria, il paesaggio sottostante scintillava come una medaglia d’oro. I campi di grano fluttuavano al vento come onde nell’oceano e la vegetazione smeraldina risplendeva alla luce del sole; durante il percorso, però, Satya non smise mai di fissare la sfera luminosa, temendo che potesse scomparire da un momento all’altro.

“Guardati intorno”, disse l’unicorno, “Ci sono tante cose da vedere”.

“Lo so”. Satya cercava ancora di fissare il globo d’oro, strizzando gli occhi al punto che le guance le si rigarono di lacrime. “Ma non riesco a evitare di guardare il sole”.

“Se cerchi la vera bellezza”, la incalzò l’unicorno, “devi trovare la luce invisibile che collega tutte le cose”.

“E come posso farlo?” chiese Satya, con gli occhi arrossati e umidi mentre continuava a cercare il sole con lo sguardo.

“Apri bene gli occhi, e guarda la terra dall’alto come se fossi un uccello”, suggerì l’unicorno.

Dapprima, Satya non era sicura di aver capito la spiegazione di Narcy, ma contenta di volare, pian piano si rilassò e cominciò a considerare tutto con curiosità. Improvvisamente il mondo le si rivelò: un letto di campanule in fiore ammantava una foresta di querce giganti, gli alberi erano così alti che Satya avvertiva persino l’odore della pioggia appena posatasi sulle foglie.

“Il mondo è diverso da qui”, disse Satya

“Proprio così,” rispose l’unicorno. “Hai osservato bene, ora forse troverai la luce invisibile”.

III - ZEN E IL FIUME BLU DELLA MONTAGNA

Satya era ancora assorta nelle meraviglie che la circondavano, quando Narcy cominciò la sua discesa verso terra per riposarsi un po’.

Si sistemarono nei pressi di un ruscello di montagna. La bambina osservò l’unicorno sguazzare nell’acqua azzurra, lucidandosi di nuovo gli zoccoli scintillanti e il manto candido e folto.

“Ti prendi cura di te molto attentamente”, osservò Satya ridendo.

“Sì”, replicò l’unicorno mentre un po’ della polvere d’oro si disperdeva nell’acqua, “mi rende felice”.

“Lo vedo”, replicò Satya. “È tutto così bello sotto il sole. Lo scintillio si riflette nell’acqua seguendo i tuoi movimenti, ed io sono tanto felice di aver guadagnato quattro ore di sole viaggiando così rapidamente. Se partiamo subito, potremo bearci della luce ancora più a lungo!”

“Hai ragione”, disse Narcy, “ma io sono troppo stanca per riprendere il volo adesso, ho bisogno di riposare. Continueremo il viaggio al mattino”.

Il sorriso di Satya si spense e la bimba si rabbuiò all’istante. Se non potevano volare via subito, pensò, era solo questione di tempo prima che il sole tramontasse lasciandola sola accanto al ruscello.

“Non voglio passare un’altra notte a piangere”, si ripeteva. “Non posso farlo di nuovo, non dopo un viaggio così lungo”.

Ma le ore scorrevano lente e la paura s’impadronì di Satya. Mentre il cielo imbruniva si trovava lontano dal suo albero, in una terra remota dove nulla le era familiare. Anche l’unicorno si addormentò profondamente e la foresta, così bella alla luce del sole, apparve improvvisamente buia e cupa. Quando anche l’ultima traccia di colore sbiadì all’orizzonte, la vista le si confuse e il cuore cominciò a balzarle nel petto. Prese a vagare, sperando di trovare un po’ di luce, ma dal buio emersero solo ombre; proiettate dalla luce lunare, si muovevano con diverse forme e dimensioni. Alcune erano lunghe e sembrava che le venissero incontro, altre si spostavano come alberi al vento. Una aveva l’aspetto di un braccio teso con il palmo rivolto verso l’alto e le dita della mano si muovevano leggermente, come per invitarla.

Satya si spaventò tanto che strinse forte il ciondolo che portava al collo: era una perla di luce, la sua unica consolazione, perché seppur con un flebile chiarore rischiarava le notti più buie.  Cosi, impugnando la perla, si coprì gli occhi sperando che le ombre svanissero.

Non appena li riaprì, però, le ombre ricomparvero; allora si alzò e corse via il più velocemente possibile; eppure, ovunque andasse, le ombre la seguivano; dovunque corresse, riapparivano. Non c’era luogo dove nascondersi e nulla che potesse fare per sfuggir loro.

All’improvviso si ricordò di Narcy e ritornò correndo e gridando lì dove si era sdraiata. Narcy non sentiva nulla. Fece di tutto per svegliarla: la scosse e le tirò persino la coda, ma l’unicorno era profondamente addormentato.

Allora Satya corse verso l’acqua, mentre le ombre la seguivano ancora. Raccolse dei sassi e lì scagliò con forza nel fiume, nella speranza che gli schizzi freddi rimbalzassero sul muso di Narcy e la svegliassero; ma quante più pietre scagliava nell’acqua, tanto più profondamente Narcy sembrava dormire.

Mentre era prossima alla disperazione, udì uno strano richiamo, come un brusio, provenire dal fondo del fiume; sentiva qualcosa che si celava fra le ombre e quando il rumore si fece più vicino, Satya era ormai paralizzata dalla paura. Che cosa sarà mai? pensò.

All’improvviso un vecchio castoro, tutto sorridente, sbucò in superficie: “Piovono sassi?” chiese con tono di voce sommesso.

Satya non riusciva a vedere nel buio e l’animale sparì rapidamente sott’acqua. Dopo pochi secondi riapparve più vicino a dove era seduta. Quando il castoro avvicinò il muso umido per annusarla, riuscì infine a vederlo rischiarato dai fiochi raggi lunari.

Era grosso, con una soffice pelliccia marrone e saggi occhi scuri. La barba lunga e bianca quasi toccava terra; portava un lungo bastone di legno e appariva calmo e composto. Incontrando il suo sguardo Satya si rilassò un poco.

“Mi spiace di averla disturbata, signore. Cercavo di svegliare la mia amica laggiù”, disse Satya, indicando l’unicorno. “Come si chiama?”

“Zen”, rispose il castoro.

“Dormiva?” Satya chiese timidamente.

“Ero sveglio, ” rispose il castoro, “ma le pietre hanno perforato il tetto della mia tana e sono affondate nel lago. Sembrava piovessero sassi!”

Satya si guardò intorno nel buio, cercando di individuare la tana del castoro. Notò che era ammonticchiata al centro di una pozza più piccola sulla riva del fiume, proprio dove aveva scagliato i sassi. Era una tana grande, dall’aspetto resistente, la sua costruzione doveva aver richiesto tempo, fatica e cura. Era tutto un intreccio di rami collocati orizzontalmente, ripieni di erbacce e fango che formava un cumulo sulla superficie dell’acqua. “Come ho fatto a non vederla?”, pensò.

“Non mi ero resa conto che quella fosse la sua casa. Spero che non sia rimasta danneggiata” disse al castoro.

“Non ti preoccupare”, rispose Zen sorridendo, “è tempo che mi costruisca una nuova tana.”

“Mi dispiace moltissimo” si scusò Satya.

“Non disperare”, replicò il castoro, “è così che vanno le cose”.

“Che vuole dire?” chiese Satya.

“Come per tutte le cose, un giorno si ha una tana sull’acqua e il giorno dopo non c’è più”.

Satya rimase stupita dall’atteggiamento di Zen: al suo posto lei sarebbe stata colta dalla disperazione ma lui non lasciava trasparire un tale sentimento: al contrario sembrava accettare i cambiamenti, quali che fossero,  ed  appariva  calmo e rilassato nel constatare il danno subito. Era mai possibile sentirsi così? Si domandò Satya.

“Permettimi di chiederti”, disse allora il castoro con garbo, “perché tentavi di svegliare l’unicorno?”

“Ho paura del buio, ero inseguita dalle ombre e non volevo restare sola”, rispose Satya.

“Paura del buio?” ripeté il castoro. “Sai, io mi sveglio dopo il tramonto, e rimango in piedi tutta la notte. L’acqua del fiume è fredda e tutti dormono. È davvero un momento bellissimo.”

“Oh, no”, replicò Satya, “il buio è terrificante. Il sole e la sua luce sono la mia vita”.

“E che mi dici delle ombre?”, chiese il castoro.

“Mi terrorizzano!” esclamò Satya.

“Allora cosa pensi di fare? Inseguire la luce per sempre? Scappare dalle ombre?”

“Sì, più o meno”, disse Satya al castoro.

“È davvero un’impresa un po’ stancante”, disse Zen. Poi, sorridendo con compassione, aggiunse: “Lascia che ti racconti una storia:

C’era una volta una bellissima farfalla nera che aveva paura del buio. Ogni notte per molti anni tentò di afferrare una stella, credendo che così avrebbe brillato nella notte.

Una calda mattina d’estate, però, la farfalla si addormentò su di un fiore. Non appena si svegliò, si accorse che le ali si erano bruciate al sole. Fu talmente spaventata di non poter più volare, che promise alle stelle che non avrebbe mai più tentato di catturarle.

Quando calò il buio, la farfalla ebbe paura, ma ricordando la promessa fatta, sorrise alle stelle per la prima volta nella vita. “Non voglio afferrarvi, disse agli astri, siete così belle lassù che mi basta guardarvi brillare’.

Improvvisamente sentì una brezza fresca sulle ali. Poi come per magia, uno scintillio piovve dal cielo e così la farfalla cominciò a brillare nella notte.

Felice e sorpresa di quanto le stesse accadendo, la farfalla si rivolse alle stelle con gratitudine; con suo immenso stupore, però, vide una lucciola luminescente cospargere polvere d’oro sulle sue ali ferite.

“Le stelle sono molto più vicine di quanto pensi’, disse la lucciola alla farfalla, “ho brillato sul tuo fiore per tutti questi anni, eppure non mi hai mai notata”.

La farfalla comprese tutto: ricoperta di polvere d’oro, volò via nella notte, col cuore sfavillante come la più luminosa delle stelle.”

“Che bella storia, Zen. Cosa significa?” chiese Satya.

“A volte dimentichiamo che la felicità può essere molto vicina”, disse Zen, “ma non pensare al significato della storia adesso, dimmi soltanto come ti senti?”

“Non ho più tanta paura”.

“È questo che conta. Non prendermi troppo sul serio però”, sorrise Zen, spruzzandole un po’ d’acqua sul viso, “io sono solo un castoro”.

Anche Satya sorrise asciugandosi l’acqua dal volto mentre gli stava seduta accanto sulla sponda del fiume, in quell’angolino della foresta, dove la notte sembrava un po’ meno spaventosa e il cielo si riempì d’improvviso di piccole stelle cadenti.

“Devo andare”, disse allora il castoro a Satya, “è ora di costruire una nuova casa sull’acqua”.

“Grazie, Zen. Sono davvero felice di averla incontrata. Mi dispiace ancora, però, di averle distrutto la sua casa sul fiume.”

Il castoro disegnò un cerchio per terra col bastone, la guardò negli occhi azzurri e disse: “Non vi è motivo di provare tristezza, mia cara. Il fiume della felicità scorre al di là dell’attaccamento alle cose.”

“Sì, ma cosa farà ora? Non ha paura di ricostruirsi la casa da zero?”

“Sì, qualche volta ho paura” rispose il castoro, “ È naturale provarla. Con il tempo, però, ho scoperto che quando non vi è un pericolo immediato la maggior parte delle nostre paure proviene da pensieri che si riferiscono al passato o al futuro. Quando ciò accade, è meglio concentrarsi sul presente, su questo preciso istante. In questo modo seguiamo il flusso autentico della natura. Osserva il fiume,” proseguì Zen, “di che colore è l’acqua?”

“Azzurra”, rispose Satya con sicurezza.

“Guarda meglio. Di che colore è adesso?” chiese di nuovo Zen.

Satya rifletté un attimo: “È nera, ma potrebbe anche essere grigia” esitò, “è così buio che non ne sono certa.”

Il castoro sorrise di nuovo: “Questo fiume è azzurro quando c’è il sole, di notte è nero come la pece, bianco quando la luna è alta, arancione al tramonto e rosa allo spuntar del sole. E la cosa meravigliosa è che in alcuni momenti non rispecchia nessuno di questi colori. Ora dimmi”, continuò Zen, “che succede quando scuoto la coda sull’acqua?”

“Si creano leggere increspature”, osservò Satya.

“Sì”, esclamò il castoro, “tutto scorre come questo fiume.”

“Scorre” ripeté dolcemente Satya. “È per questa ragione che non ha paura di dover ricostruire la sua casa?”

Zen annuì garbatamente. Poi disse: “Ora devo andare. È quasi l’alba.”

“Addio”, disse Satya, mentre l’acqua lentamente cambiava colore al sorgere del sole.

“Non vi sono addii”, ma solo arrivederci disse il castoro, agitando la coda piatta.

Scrutando le profondità del fiume rosaceo Satya vide il castoro scomparire sott’acqua. Il sole spuntò sulle montagne e lei si fermò a pensare alla notte appena trascorsa, rendendosi conto che per la prima volta non aveva pianto. Si sentì molto fortunata ad avere incontrato Zen. Era un castoro coraggioso, pensò. Non era attaccato alla sua casa, nonostante non possedesse altro. Forse era un nomade, che si spostava continuamente da un luogo all’altro oppure riusciva semplicemente a sentirsi a casa ovunque. Di una cosa era certa però: Zen le aveva insegnato a seguire il corso del fiume, senza curarsi di quale direzione prendesse, perché il fiume scorre sempre. Ma non era soltanto questo. Allo stesso tempo, le sembrò che egli avesse compreso come la vita potesse essere sia lasciata fluire, che afferrata e vissuta appieno.

Rinfrancata da questo pensiero, Satya si sentì avvolta da una grande serenità. Quando il sole era già alto, si accoccolò sull’erba rigogliosa e prese a sbadigliare. Prima di rendersene conto, si addormentò profondamente.

IV - LA DANZA DELL’UNICORNO

Era già quasi mezzogiorno quando l’unicorno, piuttosto nervoso, svegliò Satya: “Svegliati raggio di sole. Svegliati! È tardi!”

“Buongiorno Nars. Che ore sono?” chiese Satya con voce assonnata e gli occhi socchiusi: “Sono stanca. Dobbiamo andare adesso?”

“Certo, non vorrai sprecare ore preziose di luce”.

“Bene,” disse Satya alzandosi lentamente dall’erba alta e stiracchiando le braccia verso il cielo.

“Oggi voleremo in direzione sud ovest, verso un luogo incantevole che non hai mai visto, ” disse Narcy. “È un lago bellissimo, molto lontano da qui. Avremo recuperato circa sei ore di luce una volta arrivate”.

“Che cos’ ha di tanto speciale questo lago?” chiese Satya con curiosità.

“È lo specchio lacustre più stupefacente del pianeta. L’acqua è così limpida, che persino le montagne vi si riflettono”.

“Deve essere spettacolare”, disse Satya. “Ma è molto distante da qui. Sei sicura di voler continuare a volare con me? Dopo tutto, neanche io so dove sono diretta. Voglio dire, inseguire il sole è proprio…”

“Certamente voglio volare con te!” l’interruppe l’unicorno. “Mi piace moltissimo!”

“Sí, ma sarai preoccupata da un viaggio così lungo. Non ti mancano gli amici o la tua casa?”

L’unicorno esitò un secondo. Poi, con tristezza, confessò: “Non ho mai incontrato dei veri amici. Mi sarebbe piaciuto molto ma, semplicemente, non è accaduto”.

“Com’è possibile?”

“Non lo so”, disse “Forse semplicemente non piaccio”.

“Non essere sciocca, Nars!” disse Satya, sorpresa di sentire come una creatura dall’animo cosi gentile avesse potuto trascorrere tutta la vita da sola.

Durante il viaggio, Satya fu in pensiero per Narcy. Quando infine atterrarono voleva trovare il modo di farla sorridere ma l’amica sembrava lieta di aver raggiunto il lago; allora Satya si nascose silenziosamente fra i cespugli e decise di osservarla mentre giocava nell’acqua. Lo specchio lacustre era tranquillo e trasparente e ancora più bello di come l’aveva descritto Narcy. La scena ricordava un dipinto: le montagne, le nuvole, le api, gli uccelli e persino l’immagine riflessa dell’unicorno prendevano vita. L’acqua cristallina era così trasparente, che il riverbero del sole disegnava una sfera perfetta.

Sotto un cielo così azzurro e frizzante da sembrare un gioiello, Narcy galoppava a perdifiato lungo la riva del lago. Inseguiva la sua immagine rispecchiata dal sole, ridendone, mentre si muoveva agilmente; poi s’impennava sulle zampe posteriori in un gioioso rituale, scuotendo con grazia la testa da un lato all’altro mentre il vento le scompigliava la criniera. Infine saltò verso l’alto sollevando tutt’e quattro le zampe: il mondo circostante si eclissò e l’universo riflesso nel lago prese lentamente ad animarsi.

A poco a poco l’immagine dell’unicorno restituita dallo specchio d’acqua divenne più grande - si triplicò addirittura - ed anche le creature del lago sembravano rispondere alla danza di Narcy. Gli uccelli, le api, le libellule, e perfino i pesci - in gran quantità - cominciarono ad attorniarla, come affascinati dalla sua magia. Fu allora che Narcy, circondata dai misteri della natura, cominciò a parlare alla sua immagine riflessa come se avesse finalmente ritrovato una vecchia amica. Mentre parlava ad alta voce specchiandosi nell’acqua, continuando a prodursi in gioiose capriole, apparve ovvio a Satya come tutto ciò la rendesse molto felice.

Dopo un po’, però, le nuvole si addensarono e il sole scomparve, facendo svanire tutto ciò che era apparso sulla superficie del lago. Non appena si avvide del cambiamento, Narcy smise di danzare e il cuore le si riempì subito di solitudine. L’immagine riflessa dell’unicorno presto svanì e con essa anche le creature del lago. Ora che l’acqua azzurra e cristallina era diventata densa e grigia, Narcy si ritrovò sola; incominciò a tirar calci con gli zoccoli fino a che le lacrime cominciarono a scorrerle lungo il muso. Ogni goccia di pianto scompariva nell’acqua mentre il lago inanimato ingoiava il suo mondo magico.

Satya, che aveva osservato tutta la scena, riusciva a stento a trattenere il dispiacere; doveva esser vero, pensò, che Narcy non avesse mai incontrato dei veri amici. Eppure, quando danzava con tanta grazia vicino all’acqua, qualcosa la congiungeva alle creature del lago; qualcosa che attraeva e incantava, un che di vero e puro che irradiava vita. Forse questa era la luce invisibile di cui le aveva parlato Narcy. Una luce che non poteva essere vista, ma solo percepita. Trovare questo lago incantato era stato certamente un valido motivo per spingersi così lontano.

Quando le nuvole si fecero più scure Narcy ritornò verso Satya. Non rendendosi conto che la bambina l’aveva osservata per tutto il tempo, l’unicorno si asciugò il muso ancora umido e tentò di sorridere.  “Questo lago è meraviglioso, mi fa splendere il pelo e i miei zoccoli brillano, più luccicanti che mai”, disse alla bambina, sforzandosi di non guardarla per nascondere i segni della tristezza ancora visibili nei suoi occhi.

Satya la strinse a sé, e abbracciandola forte, disse: “Questo lago è magico e tu non sei sola”.

V - UNA NOTTE NEL DESERTO DELLA LUCERTOLA

Mentre le due si lasciavano alle spalle il lago dalle acque cristalline e volteggiavano alte nel cielo, Narcy lasciò a terra anche la sua solitudine dimenticata per sempre. Viaggiarono per molte ore finché non si rannuvolò e furono costrette a volare più basso.

“Dove siamo?” chiese Satya.

“Non ne sono sicura,” rispose Narcy, “sembra che siamo finite in un deserto”.

“Un deserto?” ripeté Satya ansiosamente guardando le dune ondulate che s’increspavano in lontananza. “Ci siamo perse?”

L’unicorno non rispose; più si allontanavano e più era difficile orientarsi. Non vi era segno di vita nell’aspro paesaggio desertico: neppure un albero in lontananza né una zanzara nell’aria. Anche il sole ardeva in modo insopportabile e la terra sottostante era spoglia e arida. Decisero quindi di atterrare e si arrampicarono su di una montagna rocciosa alla ricerca di un po’ d’ombra. Lì trovarono riparo sotto una grande roccia inclinata, che le proteggeva dai forti raggi del sole.

“Cosa facciamo adesso?” chiese Satya. “Il sole è troppo caldo in questo deserto!”

“Pensavo ti piacesse tanto!” disse Narcy. “Di che ti lamenti?”

Allora, all’improvviso, una voce misteriosa rispose: “Bonjour amiche mie, non siete abituate a quvesto tempo, eh?”

“Chi è?” chiese Narcy, sorpresa di trovare un altro essere vivente in quel luogo torrido. “Ho udito forse una voce?”

“Certamente ha udito una voce”, disse una lucertola dall’aspetto elegante e un bizzarro accento francese, emergendo da sotto le rocce. “Sono Roi, non una lucertola qualunque. E voi? Siete viaggiatrici?”

“Sì,” disse l’unicorno, ancora sconcertato. “Sono Narcy, e questa è la mia amica Satya. Veniamo da molto lontano.”

“Benvenute nella mia regione”, disse Roi, arrotando le erre.

“Grazie”, rispose Satya con un gran sorriso.

“Immagino dunque che siate arrivate qua, come molti altri, per avere il plaisir della mia presenza”, disse la lucertola.

“Il piacere della tua presenza? Ehm…veramente ci siamo perdute”, disse l’unicorno.

“Oh, che sfortuna”, replicò la lucertola, “eppure siete state davvero fortunate a imbattervi in Roi, meglio conosciuto come Le Grand Roi, se capite cosa intendo…”

“Le Grand Roi?” Satya chiese perplessa.

“Certamente” disse la lucertola, “annovero molti illustri re francesi nella mia progenie!”

Satya lo fissò incredula. Aveva il corpo snello e sottile, la pelle ruvida e color bronzo e una linea più scura che le correva lungo il dorso. La coda spessa era lunga quasi il doppio del suo corpo e nascondeva due paia di corte zampe. Portava una sciarpa di seta a stampe, annodata con stile intorno al collo e un anello d’oro con uno stemma sul dito mignolo, accessori che gli conferivano un aspetto elegante, quasi aristocratico. Il suo tratto più caratteristico era un paio di baffi stravaganti con le lunghe punte curvate all’insù. Mentre parlava con sicurezza e presunzione, le punte dei baffi gli coprivano gli angoli della bocca.

“Ammiri il mio foulard?” chiese a Satya, notando che osservava la sciarpa.

“Sì,” rispose, ancora colpita.

“È di seta purissima e mi è stato donato da un famoso viaggiatore, un sarto orientale: sai ho una vasta collezione di oggetti particolari provenienti da tutto il mondo”.

“Devi aver viaggiato molto allora!” osservò Satya.

“Oh, no! Io non viaggio, amica mia. Il mondo viene a farmi visita!” disse ridacchiando sotto i baffi. “Ti piacerebbe vedere la mia collezione di oggetti da tutto il mondo?

“Certo” disse Satya, non sapendo bene cos’altro dire.

“Benissimo”, continuò lui, “ma prima che vi mostri… dovete essere molto stanche e assetate. Che ne dite di bere qualcosa? Un aperitivo, forse?”

“Grazie Roi, ma noi… ”

“Prego, seguitemi e fate come se foste a casa vostra”, disse la Lucertola, ignorando ciò che Satya si apprestava a dire.

Senza molte possibilità di scelta, seguirono Roi sulla montagna rocciosa finché raggiunsero un grande spazio aperto da cui si ammirava lo splendido panorama desertico. Satya si soffermò a guardare le dune infinite che si stendevano ben oltre la sua vista. Poi, seguendo la lucertola, passarono per un sentiero più ripido che conduceva a una rampa di scale alla cui sommità vi erano due colonne che sostenevano un arco ricavato dalla pietra. Sulle colonne erano incisi dei simboli tribali; mentre i tre passavano attraverso l’arco, una strana creaturina, che somigliava contemporaneamente a un topo, a un coniglio e a un canguro, li invitò a entrare in una cavità che si trovava dietro un muro di pietra.

“Benvenuti in caza mia”, disse la lucertola. “Lui è Bilbie, il mio maggiordomo”.

“Buona sera, Signora”, le salutò lo strano esserino, versando succo di cocco fresco nei bicchieri. “Prego, accomodatevi”.

Satya si tuffò sui soffici cuscini indiani sparpagliati sul pavimento; guardandosi intorno notò che le pareti erano decorate con pietre di ogni dimensione, forma e colore. Alcune erano incise mentre altre contenevano gemme preziose, cangianti a seconda della luce. Il soffitto basso, ricavato da un enorme pezzo di granito, aveva un’apertura al centro, per lasciar penetrare i raggi del sole. La collezione della lucertola era ben esposta occupando ogni angolo della stanza. Vi erano pipe antiche, statue di legno, libri, barattoli, vasi, monete, elmetti, orologi a pendolo, rose del deserto e diversi tipi di cristalli: ametiste, quarzi e diaspri. Molti altri oggetti erano sparsi in giro, alcuni impilati gli uni sugli altri. La luce soffusa della sera però impedì a Satya di osservare con chiarezza il contenuto della stanza.

“Ti piace la mia raccolta di oggetti dal mondo?” chiese la lucertola.

“Oh, sì, sono molto interessanti. Certamente hai tanti amici” disse Satya.

“Sono viaggiatori a cui piace ascoltare le mie storie” disse.

“Sai, molto tempo fa, quando ero più giovane, scoppiò una guerra in questo deserto. Vi erano molte tribù che si disputavano la terra. Nessuno si accontentava di ciò che aveva, tutti cercavano qualcosa di diverso. Ero nell’esercito allora ed ho visto molte cose, sai, parlavo con tutte le varie tribù… ”

E così la lucertola cominciò a narrare un profluvio di aneddoti e non smetteva più.  Parlò per quasi due ore senza fermarsi, non s’interruppe mai, neppure per bere un sorso d’acqua. Parlò della sua vita, del suo perduto amore e del ruolo che aveva avuto nell’esercito. Ogni quarto d’ora gli strani orologi a pendolo che collezionava rintoccavano simultaneamente. Erano perfettamente sincronizzati e ognuno produceva un suono diverso e un ticchettio che ricordava a Satya quanto poco tempo le restasse prima che la civetta annunciasse l’ora dell’oscurità. Confusa dai rintocchi degli orologi, dal profumo dell’arrosto francese e dal noioso e incessante monologo della lucertola, Satya si dedicò a cercare di stabilire se Bilbie somigliasse di più a un canguro, a un coniglio o a un topo. Così, mentre Narcy ascoltava ancora con attenzione i racconti della lucertola, Satya ne approfittò per studiare la strana creatura.

Bilbie si poggiava sulle zampe posteriori, proprio come un piccolo canguro, ma non saltava. Allo stesso tempo, però, lo si sarebbe facilmente potuto confondere con un topo, se non fosse stato per le sue grandi orecchie da coniglio. Forse era uno strano tipo di topo, ma più lo guardava, meno riusciva a capire. Indossava dei guantini bianchi ed eseguiva ogni ordine che la lucertola gli impartiva, proprio come un soldatino. Forse Roi lo aveva incontrato durante la guerra, pensò. Bilbie poteva aver fatto parte dell’esercito. Lo strano animaletto però non sembrava aver fatto la guerra. C’era un’unica cosa di cui era certa: Bilbie pareva racchiudere tre animali diversi in un corpo solo; a quale di questi somigliasse di più, però, restava un mistero.

Proprio mentre cominciava a farsi un’idea, la lucertola finalmente finì la sua storia. “Gradireste cenare ora?”

Satya ormai spazientita voleva alzarsi temendo che il sole fosse già tramontato. Cercò di richiamare l’attenzione di Narcy e, sperando di venirne spalleggiata, esclamò: “Grazie, Roi, ma ora dobbiamo davvero andare!”

“Oh no!” gridò Narcy, che era interessata ai racconti di Roi e aveva tanta fame che avrebbe divorato praticamente di tutto. “Non dobbiamo andare da nessuna parte. Sto morendo di fame!”

Satya le lanciò un’occhiataccia. Poi, rendendosi conto che non vi era altra scelta che passare la notte nel deserto, accettò con riluttanza l’invito di Roi. La lucertola era entusiasta di averle ospiti a cena e cominciò a raccontare un’altra delle sue storie. Satya si distrasse di nuovo e ripensando al sole comprese che per quanto velocemente volassero inseguendo la luce, il buio le avrebbe inevitabilmente raggiunte a causa della stanchezza oppure di eventuali ostacoli che si sarebbero frapposti al loro cammino. Era un tentativo inutile, pensò, rincorrere la luce per sfuggire alla notte e inoltre stava diventando estenuante. Prima o poi, anche l’unicorno l’avrebbe lasciata sola nella sua ricerca e a quel punto cosa le sarebbe accaduto?

Poiché questi pensieri le affollavano la mente, Bilbie la colse di sorpresa: “Dell’altra zuppa, signorina?”

Satya ritornò in sé. “No, grazie, ” replicò. Non aveva molto appetito e rimase sconcertata quando vide sedici portate differenti in tavola, consistenti in una selezione di raffinati piatti francesi, zuppe, sughetti e salsine. Forse la lucertola aveva un po’ ecceduto, pensò, oppure non aveva mai ricevuto un unicorno a cena. In ogni caso sembrava che Narcy si divertisse mentre ingurgitava il cibo voracemente. Avrebbe potuto andar peggio, pensò, se non altro la lucertola sapeva il fatto suo in cucina.

Mentre Satya era ancora immersa nei suoi pensieri, Roi smise finalmente di chiacchierare. La stanza fu silenziosa per un minuto. Né Narcy né Satya osarono parlare.  Poi la lucertola, che aveva occhio per gli oggetti preziosi, disse: “Hai un bel ciondolo al collo, Satya”.

“Oh, grazie”, replicò la bambina. “Tengo molto alla mia perla di luce”.

“Posso chiederti perrché?” domandò la lucertola.

“Beh, è come il sole per me. Luccica di notte quando non c’è luce”.

“Allora anche tu adori il sole, proprio come me!”

“Oh, sì!” disse Satya. “Non posso farne a meno”.

“Bene, allora ti trovi nel posto giusto! Il deserto è pieno di sole!”

“Lo so, ma io sono alla ricerca del sole eterno. Abbiamo già viaggiato per molti giorni, inseguendo i suoi raggi luminosi”.

“Questo è molto interessante ma stancante, suppongo… ”

“Sì, spossante, direi. Non penso potremo continuare cosi, ma questo mi rattrista molto”.

“Allora perché non rimanere qui? Nel deserto il sole è forte, i tramonti sono spettacolari e il cielo di notte è pieno delle stelle più splendide”.

Satya rimase silenziosa per un minuto. Poi guardò la lucertola tutta speranzosa e disse: “Sai, vorrei soltanto che esistesse un posto dove il sole non tramonta mai”.

“A questo proposito”, disse la lucertola, “una volta un mercante di spezie giunse in questa regione e mi parlò di uno scienziato che aveva scoperto un posto simile”.

“Vuoi dire un luogo dove il sole non tramonta mai!” esclamò Satya.

“Sì, e se non sbaglio mi parlò di una talpa, un astronomo talpa, il dottor Abhi… Un vero e proprio genio con il pallino dei numeri e bravissimo a far di calcolo.

“Cosa calcola esattamente?” l’interruppe Satya.

“Calcola… Non so bene cosa calcoli esattamente ma non importa…il punto è che conosce la strada per il luogo che cercate”, affermò la lucertola.

“È proprio incredibile! E dove possiamo trovarlo?”

“Vive su un’isola nelle viscere di un vecchio vulcano spento”, disse la lucertola.

“E cosa fa in un posto così?”

“È un mistero. Nessuno l’ha mai visto di giorno. Lavora ai suoi esperimenti ventiquattr’ore al giorno”, disse Roi.

“Allora come possiamo trovarlo?”

“Dovrete dirigervi verso il gigante addormentato. Pare sia difficile. Se volete, vi posso dare delle indicazioni”.

“Oh, Roi, grazie davvero! Narcy ed io partiremo immediatamente. Sei un genio!”

“Merci pour le compliment, mon cheri. Sono lusingato, ma ti suggerisco di partire di mattina. Il cattivo tempo è in arrivo”.

“Sei sicuro? Pensavo che non facesse mai cattivo tempo nel deserto. Di solito il sole splende sempre qui”, disse Satya.

“Sempre, mai, di solito: sono avverbi che inducono in errore, specialmente se pronunciati tutti insieme”, disse la lucertola, sorridendo maliziosamente.

“Ma non possiamo rimanere qui” insisté Satya. “Presto farà buio.”

“Ascoltami”, disse la lucertola, “il buio è molto più luminoso di quello che credi”.

“Lo spero proprio”, disse e mentre la penombra scendeva nella caverna della lucertola Satya socchiuse gli occhi, cadendo in un sonno profondo e  popolato di sogni. Nel sogno si arrampicava sulla cima della montagna rocciosa alla ricerca degli ultimi raggi di sole.  Sedeva a terra a gambe incrociate e guardava il deserto sottostante. La vista era mozzafiato: un tramonto fiammeggiante e un cielo cremisi si estendevano su un mare di dune rosa e ruggine. Era come se la terra e il cielo si cingessero in un ampio abbraccio di colore e di luce. Mentre guardava l’enorme palla di fuoco svanire lentamente e il cielo silenzioso della notte ingoiare le dune, il Buio le apparve ancora una volta.

“Sei di nuovo qui”, gli disse, “perché non te ne vai?”

“Perché sono appena arrivato”, rispose il buio.

“Non potresti andartene da qualche altra parte?” chiese Satya.

“Dove vorresti che andassi?” replicò il buio.

“Dove non debba vederti”.

“Ciò che è più misterioso, disse il Buio, “è che tu pensi di essermi di fronte ora, ma in realtà, proprio in questo momento, non mi vedi davvero”.

“Certo che non ti vedo veramente. Non voglio vedere ciò che mi fa paura!”

“Voglio prometterti una cosa” disse il Buio. “Se, con tutto il cuore, cercherai veramente di guardarmi, non avrai mai più paura”.

“Come posso riuscirci?” chiese Satya.

“Osservami come se fosse la prima volta, come se non mi avessi mai visto prima”.

“Ti ho già visto molte volte”, disse la bambina, “e conosco bene il terrore che m’incuti”.

“Se davvero avessi provato a vedermi”, insisté il Buio, “non avresti più paura”.

Satya sospirò forte, non sapendo che dire. Ci fu una lunga pausa. Poi il Buio parlò di nuovo: “Sono così spaventoso?”

A questa domanda Satya non rispose; una miriade di pensieri le attraversava la mente, come nuvole nel cielo. Il buio era davvero terrificante? si domandò. Confusa, affondava le mani nella sabbia e si chiese se non fosse solo la sua mente a spaventarla, proprio come aveva osservato Zen. Mentre raccoglieva un po’ di sabbia fra le mani, notò che i suoi pensieri fluivano, come la sabbia che le scorreva fra le dita scivolando a terra, così leggera da disperdersi al vento. Osservò la rena e ne percepì i granelli senza peso e anche i suoi pensieri si dispersero nell’aria. Allora, alzando lo sguardo verso il Buio, disse. “Sei ancora lì?” Non ci fu nessuna risposta. Il deserto apparve più silenzioso che mai. “Sei ancora lì?” chiese di nuovo debolmente, ma il Buio non rispose.

Era molto tardi quando un rumore forte e martellante interruppe bruscamente il sogno di Satya. Aprì gli occhi improvvisamente; Roi e Narcy erano comodamente sdraiati sui cuscini accanto a lei, e dormivano profondamente. Ancora stordita dal sogno, Satya uscì dalla caverna della lucertola per vedere da dove provenisse quel suono.

In un angolino scuro trovò Bilbie che suonava il clavicembalo improvvisando un pezzo con passione. Le sue piccole dita si muovevano agilmente sulla tastiera e le grandi orecchie da coniglio oscillavano avanti e indietro mentre era intento a mantenere il ritmo; indossava ancora i guanti bianchi e le mani si incrociavano così velocemente sulla tastiera da sembrare due piccoli astri danzanti nel cielo stellato. Ogni tanto estendeva la coda su tutta la superficie del clavicembalo dando libera espressione a tutto il suo talento. Al suono di quelle note, Satya fu completamente assorbita dalla musica. Bilbie suonò vivacemente ancora per qualche minuto fino a che non si accorse della presenza di Satya proprio dietro di sé.

“Mademoiselle!” esclamò Bilbie. “Devo aver suonato il clavicembalo troppo forte”, si scusò quando vide Satya.“L’ho disturbata?”

“Non mi ha disturbata affatto. Ero venuta a vedere il cielo di notte, ma sono rimasta incantata dalla sua musica. È la prima volta che vedo il deserto stellato e ascolto una melodia cosi meravigliosa.

“Oh, grazie Mademoiselle. Ha ragione, anche se suono qui tutte le notti, il cielo è sempre più bello”, replicò Bilbie.

“Lo è davvero”, sorrise Satya. È di un’oscurità che non ho mai visto prima”.

VI - UN’AQUILA PIGRA

Satya si svegliò la mattina seguente al sorgere del sole. Sin dall’alba Narcy era rimasta sdraiata accanto a lei, a spazzolarsi la criniera e a pulirsi gli zoccoli scintillanti.

“Buongiorno, ti stavo aspettando”, disse l’unicorno, “Sei pronta a partire?”

“Dov’è Roi?”

“É uscito, credo: starà intrattenendo qualche viaggiatore appena arrivato. Ha lasciato questa mappa e ci augura di trovare ciò che stiamo cercando” disse Narcy. Satya esaminò la mappa; non era per niente chiara, sembrava che il vulcano fosse molto lontano e la rotta era segnata col pigmento di una roccia rossa e sabbiosa. Vi erano sbavature dappertutto, ma Satya era determinata a trovare il cratere della talpa e sperava di riuscire a leggere correttamente la mappa.

Partirono immediatamente e volarono per alcune ore; sembrava che il deserto non finisse mai. Tutto appariva sempre uguale e Satya ricordò la foresta di querce che aveva visto mentre si dirigeva verso il ruscello azzurro di montagna. Mentre continuavano a sorvolare le dune nel caldo torrido del deserto Narcy, con sua grande irritazione, cominciò a sentire un prurito sul dorso.

“Che cosa hai, Nars? Qualcosa ti dà fastidio?” le chiese Satya percependo il suo disagio.

“Ti dispiacerebbe grattarmi la schiena, per piacere? Mi prude da morire” disse l’unicorno mentre spostava la coda da un lato all’altro, nel tentativo di alleviare il prurito. Quando Satya si voltò per strofinarle la schiena, fu talmente sorpresa di trovarsi di fronte un enorme falco dalla coda rossa, che la fissava con luminosi occhi color nocciola, che quasi cadde dal dorso di Narcy.

“Hola, disse l’uccello in un tono di voce rilassato e sereno. “Piacere. Sono Rikke”.

“Chi è?” urlò Narcy stupita.

“É un uccello, anzi, è un falco piuttosto grande che si è accomodato sul tuo dorso. Dice di chiamarsi Rikke”, l’informò Satya.

“Un falco?” urlò Narcy girando la testa all’indietro per dare uno sguardo al rapace. “Oh, per amor di Dio, che ci fa sulla mia schiena un uccellaccio dalle penne vecchie, trasandate e indurite e gli affilatissimi artigli?”

“Non agitarti, Niñita. Sto facendo solo una siesta. Il tuo pelo è così morbido” disse il falco con accento messicano.

“Sì, e vorrei che restasse tale, perciò, se non ti dispiace…scendi e vai ad adagiare gli artigli da qualche altra parte, su vai”.

“Tranquila, mi sto solo riposando. Anche noi ci stanchiamo a volare, sai”, rispose il falco.

“Starai scherzando!” urlò l’unicorno “ Ma com’è possibile che un volatile sia tanto pigro da voler fermarsi sulla mia schiena invece di trovarsi un albero?”

“Perché qui intorno non ci sono alberi”, disse il falco a Narcy.

“Ed io ti sembro per caso un albero?” chiese irritata l’unicorno.

“Oh, no, qui si sta molto più comodi! Comunque, Niñita, faresti meglio a essere gentile con me invece di lamentarti tanto. É difficile atterrare nel deserto. Il tuo morbido, bianco, bellissimo pelo potrebbe rovinarsi velocemente se ti perdi qui intorno!”

“Insomma, ne ho abbastanza adesso! Noi non abbiamo alcuna intenzione di atterrare qui”, disse Narcy. “Siamo dirette al vulcano della talpa!”

“É lì che state cercando di andare?” chiese il falco.

“Sì”, rispose Satya. “Ma non abbiamo indicazioni molto chiare. La mappa è quasi impossibile da decifrare. Per caso tu conosci la strada?”

“Naturalmente conosco la strada. Ma nel deserto non si fa niente per niente. Cosa mi puoi dare se ti conduco là?”

“Non ho nulla da darti”, disse Satya.

“Dammi qualcosa che io possa vendere. Ad esempio quella bellissima perla che porti al collo”.

“Oh, no, non potrei mai privarmi della mia perla di luce”, disse Satya. “È l’unica cosa che porto e che risplende di notte quando il sole scompare”.

“Meglio cosi”, disse il falco. “La venderò come la lanterna magica che splende nel buio!”

“Vendere la mia perla?”

“Sì. Ma ti condurrò al vulcano della talpa, te lo prometto…, in un batter d’occhio”.

“Va bene allora, se ci indicherai la strada, la perla sarà tua quando arriveremo al vulcano, ma devi promettermi che smetterai subito di affondare gli artigli nel pelo di Narcy”.

“Hai la mia parola!” disse Rikke. “Ma permettimi di dirti che non vedo l’ora di diventare il falco più ricco di tutto il deserto!”

“E che cosa hai intenzione di fare quando sarai diventato il falco più ricco del deserto?” gli chiese Satya.

“Non lo so ancora. Ma non ha proprio importanza, perché sarò così ricco che non dovrò preoccuparmi di nulla”.

“Davvero?” chiese Satya.

“Naturalmente. Ebbene, tu cosa hai in mente di fare quando sarai arrivata al vulcano della talpa?”

“Volerò fino al luogo dove il sole non tramonta mai”, rispose Satya

“E cosa farai una volta arrivata?”

“Non ho ancora pensato neppure a questo”, disse la bambina.

VII - FUOCO NEL CIELO

Mentre i tre continuavano a volare, l’atmosfera si riempì di elettricità e Narcy fu costretta a volare molto più basso. All’improvviso i bagliori dei fulmini illuminarono il cielo e il boato di un tuono ruppe il silenzio. Folate di vento soffiavano in ogni direzione, ma senza pioggia. Poi tuonò ancora e per la frazione di un secondo il cielo diventò giallo.

“Non abbiate paura”, le rassicurò Rikke. “È soltanto brutto tempo. Passerà”.

Sollevata, Satya respirò profondamente. Rilassando i muscoli contratti, guardò verso l’orizzonte. Tutto appariva normale. Il deserto era alle spalle ormai anche se la terra era ancora arida. È solo una burrasca passeggera, pensò. Presto tornerà il sole. Ma l’urlo improvviso, disperato di Narcy, la gettò in uno stato di profonda agitazione.

“Fuoco! Fuoco! Andiamo a fuoco!”, gridò l’unicorno col pelo in fiamme.

“Narcy!” gridò Satya, mentre le fiamme lentamente risalivano lungo le zampe, bruciandole parte del pelo. “Mi senti?” chiamò di nuovo Satya. “Dobbiamo atterrare immediatamente!”

“Narcy… Narcy!” continuava a urlare Satya. “Ascoltami!”

Ma l’unicorno non rispose e le fiamme diventarono più alte.

“Narcy!” Ripetè Rikke disperatamente. “Devi virare a est, subito, e dirigerti verso l’oasi. Mi senti?”

Ancora nessuna risposta. Rikke saltò sulla testa dell’unicorno, cercando di prendere il comando ma il vento alimentava le fiamme. Narcy sembrava aver perso completamente il controllo ed era svenuta. Ormai l’oasi appariva un miraggio lontano. Il tempo peggiorò e Satya tremava di paura. Presto le fiamme si sarebbero estese al vestito e allora non ci sarebbe stato più nulla da fare. Rikke e Satya si guardarono terrorizzati mentre precipitavano. Allora, come per miracolo, l’unicorno riprese conoscenza. Spostando le ali all’indietro, per ripararle dal fuoco, le strinse lungo i fianchi, diresse il muso verso terra e alzò la coda verso il cielo. In pochi secondi erano in caduta libera al massimo della velocità, tuffandosi verso l’ignoto.

Satya aveva lo stomaco in gola e persino Rikke, che era abituato a volare, rimase atterrito quando comprese che avrebbero potuto schiantarsi a terra in qualunque momento. Fu solo all’ultimissimo minuto che Narcy riaprì le ali e virò verso l’oasi. Appena in tempo i tre trattennero il respiro e precipitarono nel lago finendo sott’acqua.

Dopo un paio di minuti, Rikke tornò in superficie completamente zuppo, ed esclamò: “Sono vivo, sono vivo!”

“Anch’io”, gridò Narcy, inspirando l’aria.

“Fiuu!”, sorrise Satya. “Non posso credere che non ci siamo bruciati!”

“Incredibile”, replicò Rikke. “Non che ci tenga poi tanto alle mie piume malandate… ma, sai, siamo vivi!”

Tenendosi un po’ in disparte, Narcy ascoltò la loro conversazione. Poi, senza dire una parola, si allontanò e si nascose dietro un albero. Vicino all’albero c’era una piccola pozza d’acqua. Vi guardò dentro per vedere la sua immagine riflessa. Il pelo non era più bianco, soffice, immacolato e folto, ma grigio e spento. Aveva il cuore a pezzi. Satya e Rikke andarono a cercarla e la trovarono immobile, sdraiata dietro l’albero. Quando li vide avvicinarsi, Narcy non riuscì neppure ad alzare la testa per guardarli.

“Vieni qua, Narcy perché ti nascondi?” chiese Rikke.

“Non voglio che nessuno mi veda in questo stato”, rispose l’unicorno.

“In quale stato?” chiese Satya.

“Sono brutta”, gridò Narcy, “Non vedete?”

“Non sei brutta, Nars. Il pelo ricrescerà”, la rassicurò Satya.

“Lasciatemi in pace!”, replicò Narcy, “Se mi nasconderò qui per sempre, nessuno mi vedrà”.

“Narcy, vi sono cose ben peggiori di un pelo bruciacchiato”, disse il falco, “Guardami. Non sono un turbine di piume!”

“Almeno tu non hai le penne bruciate!” replicò l’unicorno.

“Narcy”, disse il falco, “un giorno sarai molto vecchia: il tuo bianco, folto pelo diventerà sottile e rado, ma se ti accorgi di quanto sei bella oggi, festeggerai sempre la vita!”

“Vero, infatti, dovremmo già festeggiare”, disse Satya. Ti rendi conto che ci hai salvato la vita!?!”

“Oh no, è stato Rikke a salvarci”, precisò Narcy.

“No! Tu ci hai salvato dal fuoco tuffandoti nell’acqua!”, insisté il falco.

“Sì, ma sei stato tu a dirmi come arrivare fin qui”, sottolineò Narcy. “E in più, non sei volato via”.

“Ma che dici?” chiese Rikke.

“Dico che anche se sei troppo pigro per volare - sappiamo che hai le ali - quando il fuoco è divampato, avresti potuto lasciarci lì, invece sei rimasto con noi fino alla fine. Ecco perché, per quanto mi riguarda, sei tu che ci hai salvato la vita”, spiegò Narcy.

“Quindi posso riposarmi ancora un po’ sulla tua schiena?” scherzò il falco.

Narcy arrossì. “Non ho detto questo... Ma sì, potrai restare tutto il tempo che vuoi”.

“Ha, ha, ha, ha…! Grazie!” rise il falco. “Sei un eroe!”

“Già, un eroe alla griglia col manto bruciato, ” replicò l’unicorno.

“Non è mica grave, l’odore degli unicorni alla griglia non è niente male!”, disse il falco.

“Nars”, le sussurrò Satya all’orecchio, “penso proprio che segretamente tu gli piaccia!”

“Cosa?”, rispose l’unicorno sorpreso.

“Non importa”, disse Satya. “Guarda, adesso in cielo si staglia un bellissimo arcobaleno. Splende tra due nubi. Quanti colori pensi che vi siano?”

“Non sono sicura,” rispose Narcy. “Ne ho contati sei”.

“Gli arcobaleni non sono tutti uguali”, si intromise Rikke. “Alcuni hanno solo tre colori, altri ne contano più di sette. I colori spesso si fondono, perciò non si sa mai con esattezza cosa si guarda. Alle volte nemmeno i falchi sono in grado di distinguerli”.

“Vediamo”, replicò Satya, “Io distinguo il viola, l’azzurro, il verde, il giallo e l’arancione”.

“L’arancione non c’è!” esclamò Rikke. “È rosso quello!”

“Oh, no!”, disse Narcy, “Guardate quel colore laggiù, quello accanto all’arancione è senz’altro rosa!”

VIII - IL VULCANO DELLA TALPA

Mentre Narcy attraversava fiumi e foreste Satya si domandava quanta strada dovessero ancora percorrere per arrivare al vulcano abitato dalla talpa. Si stava talmente divertendo a sorvolare il mondo insieme ai suoi amici, che cominciò a chiedersi se avesse ancora importanza raggiungere il luogo in cui il sole non tramonta mai. Da una parte desiderava ancora sapere cosa si provasse a vedere solo luce attorno a sé, in un luogo dove non avrebbe mai dovuto attendere il tramonto con ansietà, dall’altra però, dopo aver davvero incontrato il Buio, le sue motivazioni per intraprendere il cammino verso il luogo della luce perpetua erano mutate; non era più sicura che fosse la paura del buio a spingerla a compiere il viaggio.

Era troppo tardi per pensarci. All’imbrunire il cielo divenne un arcobaleno di colori: nuvole di rosa, verdi, arancioni, azzurri fluorescenti e gialli fiammeggianti esplosero dal picco più alto del vulcano, che si ergeva maestosamente in lontananza. Mentre si avvicinavano Narcy girò varie volte intorno all’immenso cono.

Fendendo i vapori colorati, l’unicorno trovò la strada per entrare nella cavità interna del vulcano. Il cratere a forma di stella era profondo e stretto e vi passava pochissima luce solare. Appena iniziato il viaggio nel ventre del vulcano, Satya cominciò a rabbrividire e Rikke aggrottò gli occhi per vedere attraverso le esalazioni. Sembrava di attraversare un tunnel lungo e misterioso, di cui non s’intravedeva l’uscita.

“Non riesco a vedere dove stiamo andando!”, esclamò Satya.

“Tieni duro, non sarà così terribile ”, la rassicurò Rikke.

Quando l’unicorno atterrò bruscamente sul fondo del vulcano, sembrava che fossero giunti al centro della terra.  Satya e Rikke caddero dal dorso di Narcy, rotolando sul terreno sulfureo. Erano bloccati in uno spazio molto angusto e quasi senza luce. Notarono una porticina sul lato di una delle quattro pareti di pietra calcarea che li circondavano. Sembrava chiusa, sebbene fosse l’ingresso di una caverna sotterranea. All’improvviso, la voce profonda di un vecchio pipistrello nero ruppe il silenzio.

“Chi è venuto a trovare il dottor Abhi?”

“Salve! Rikke, Narcy ed io siamo venuti da molto lontano per incontrarlo”, disse con voce tremante Satya al pipistrello.

“Perché siete venuti?“ replicò il pipistrello che sembrava fosse nascosto da qualche parte vicino a loro ma non si riusciva a vedere dove.

“Speriamo di raggiungere il luogo dove il sole non tramonta mai”, spiegò Satya.

“Ha, ha, ha…” scoppiò a ridere il pipistrello avvicinandosi.  “Il luogo della luce perpetua è un posto orribile. Io là non potrei sopravvivere neppure per un minuto”.

“Perché mai?” chiese timidamente Satya.

“Perché sono il re dell’oscurità. Ho sempre vissuto in questo vulcano ed è per questa ragione che il dottor Abhi mi ha scelto per stare di guardia. Ora, vogliate scusarmi, ho del lavoro da fare”, disse il pipistrello che stava appeso sulla porta a testa in giù.

“Aspetta! Riesci a vedermi al buio?” chiese Satya.

“Naturalmente, io vedo solo al buio!” replicò il pipistrello.

“In questo caso allora… capisco perfettamente che tu possa non essere interessato al sole… e capisco anche che ti piaccia stare appeso a testa in giù, il che mi indica che probabilmente abbiamo approcci e prospettive divergenti,  ma ti prego, ti prego, potresti farci il favore di aprire la porta?”

“La porta è già aperta”, disse il pipistrello, “Bisogna che tu veda nell’oscurità prima di poter percepire la luce”.

“Grazie per il consiglio”, disse Satya mentre salutava il pipistrello e passava attraverso la porta.

Non appena mosse pochi passi all’interno della caverna, si rese conto che la porta attraverso cui era appena passata conduceva soltanto a un altro passaggio, che era chiuso da un altro cancello. Rattristati nel vedere che la porta non conduceva al laboratorio della talpa, i tre si avvicinarono per assicurarsi che l’entrata fosse davvero chiusa.

“Oh, no, ora che facciamo?” esclamò Satya. “Questa volta la porta è davvero bloccata”.

“Posso provare a spingere”, suggerì Narcy cercando di sfondare la porta con il corno.

“Ha, ha, ha, ha…” rise ancora il pipistrello, guardando la scena dal posto in cui si nascondeva. “Non aprirai mai questa porta con la forza bruta. Devi usare il potere della mente se desideri entrare”.

“Potere della mente?” ripeté Satya. “E cos’è? Un trucco?”

“Alcune cose non si ottengono tanto facilmente, ” replicò il pipistrello.

Satya accigliata disse: “Bene, facciamogli vedere di cosa siamo capaci!”

Si precipitarono tutti e tre al cancello e cominciarono a ispezionarlo con attenzione.  Il portone era in acciaio, un blocco unico che andava da un lato all’altro del passaggio; oltretutto era molto alto con una piccola apertura sul fondo, ma solo un topo avrebbe potuto infilarvisi.

Su di un lato vi era una serratura. Satya la studiò attentamente, sperando di scoprire un modo per aprirla. Forse, pensò, non era difficile come sembrava. Magari il pipistrello sapeva cosa fare, perciò gli chiese: “Hai le chiavi del cancello?”

“No”, rispose il pipistrello. “Il cancello è automatico.”

“Se è automatico”, pensò Satya ad alta voce, “deve rispondere a un comando”.

“Vero”, aggiunse Narcy. ”Forse c’è un codice segreto che bisogna pronunciare!”

“Guarda!” esclamò Satya. “C’è un avviso inciso sulla sommità del cancello!”

“Riesci a leggere che dice?” chiese Narcy.

“No”, rispose Satya. “É troppo alto ed è troppo stretto perché tu mi possa far salire lassù in volo”.

“Dobbiamo formare una piccola torre”, suggerì Narcy. “Se Satya mi sale sulle spalle, Rikke può volarle sulla testa e leggerlo!”

I due seguirono questo suggerimento, senza perdere nemmeno un secondo. Mentre Satya stava in piedi sulla schiena di Narcy, oscillando da un lato all’altro, Rikke lesse: “C’è un unico dolore che un uccello non proverà mai. Qual è?”

“Beh, e cosa dovrebbe significare?” disse l’unicorno.

“Non ne ho idea”, disse Satya.

“Vediamo un po’”, cominciò a riflettere Rikke, “io sono un uccello, no?”

“Non v’è dubbio”, confermò Satya.

“Bene, in teoria”, disse Narcy, “ tu sei un falco dalla coda rossa e le vecchie piume malandate”.

“Che c’entra questo?” replicò Rikke.

“Niente”, disse l’unicorno. “Era solo per ricordarmi che nulla importa davvero”.

Rikke fece l’occhiolino all’unicorno. “Va bene, allora. Ora dimmi qual è l’unico dolore che gli uccelli non provano mai?”.

“Mal di testa?” suggerì Satya.

“No! Soffro di mal di testa”, disse Rikke.

“Mal di stomaco?”

“No, mi è capitato di fare indigestione in passato.”

“Pene d’amore?” disse Narcy.

“Pene d’amore?” ripeté Rikke, “Non ho mai sofferto pene d’amore prima… non finché… voglio dire… lascia andare, non è possibile… che altro può essere, allora?”.

“Come possiamo saperlo?” chiese Satya. “Sei tu l’uccello qui!”

“Aspetta un attimo”, disse Rikke. “Io ho il becco, giusto?”

“Che c’entra questo?” fece Satya ridendo.

“Beh”, continuò Rikke, “se ho il becco, non ho i denti!”

“Mi dispiace”, disse la bambina.

“Sì, è molto triste ”, aggiunse Narcy.

“Di che parli?” disse Rikke. “Non c’è ragione di dispiacersi!  Gli uccelli non hanno i denti! Siamo fatti così… e perciò non soffriamo mai di mal di denti…già, mal di denti, capisci ?”

“Evviva!” disse Satya. “Hai ragione!  Mal di denti è il codice segreto!”

“Buona questa”, sussurrò Narcy tra sé e sé mentre il cancello si apriva cigolando davanti a loro.

Attraversarono la soglia. L’aria si raffreddò, Narcy starnutì e l’eco risuonò forte all’interno della caverna. Rimanendo vicini camminarono lentamente per poche centinaia di metri. La luce era molto fioca e l’unico suono che udivano era lo sgocciolio dell’acqua che cadeva dalle stalattiti.  Continuarono così ad avanzare finché non trovarono una porta  di legno rossa.

Satya cercò di aprirla, ma anche questa era chiusa a chiave; allora cominciarono a cercare altri indizi. Questa volta non vi era nulla d’inciso sulla sua sommità. Allora Satya si rivolse di nuovo al pipistrello: “Quante altre porte dobbiamo varcare prima di arrivare alla talpa”?

“Al dottor Abhi non piace perdere tempo. Vuole essere sicuro che chi giunge qua, voglia davvero incontrarlo”, disse.

“Bene allora”, disse Satya, alzando le sopracciglia. “Non ci arrenderemo, ci dovrà essere un altro trucchetto per aprirla”.

I tre cominciarono a guardare in ogni angolo, sotto le rocce e dietro le tante stalattiti che popolavano la caverna. Narcy si accinse addirittura a scrostare la vernice dalla porta, sperando che il legno sottostante potesse celare un messaggio; non riuscirono però a trovare nessuna traccia.

Rekke decise di volare attraverso le stalattiti e intorno alle punte. Era piuttosto pericoloso. I ghiaccioli erano taglienti e appuntiti e lo spazio molto ridotto. Ispezionando la zona, notò un luccichio. Gli occhi non lo tradivano mai, specialmente quando individuava oggetti scintillanti; allora si avvicinò e, come solo i falchi sanno fare, scese in picchiata e artigliò l’oggetto brillante.

“Hai trovato la chiave!” l’applaudì Satya al suo ritorno. “Bravo!”

Quando Satya cercò di aprire la porta, che cedette facilmente, sospirarono di sollievo. Dopo pochi secondi però un muro, bianco come la neve,  si stagliò loro davanti. Del tutto increduli, Narcy e Rikke osservavano il muro con espressione vuota. Satya sospirò, incerta sul da farsi. Era evidente che la porta non conduceva da nessuna parte.

Ancora una volta il pipistrello volò dietro di loro: “Questa è una finta entrata. Dovete trovare un altro modo di accedere, se volete ancora incontrarlo”.

Satya si guardò intorno, disorientata. Nella caverna tutto era di pietra. Non si vedevano altri punti di accesso, le pareti erano umide e il freddo le penetrava nelle ossa. In un angolino, però, notò un topolino che si faceva strada in una minuscola, quasi invisibile crepa tra le rocce. Quando lo vide, ebbe un colpo di genio. Forse c’è un buco, pensò, o un’apertura da qualche parte lungo i fianchi della caverna; allora, cominciò a tastare le pareti della grotta finché un pezzo di pietra si mosse improvvisamente verso l’interno e Satya rotolò dall’altra parte del muro.

“Aspettatemi!” gridò ai suoi amici mentre entrava barcollando nel laboratorio della talpa.

IX - LA TERRA DEL SOLE A MEZZANOTTE

“Vieni avanti”, chiamò una voce dall’estremità più lontana della caverna. “Devi essere molto motivata per essere arrivata sin qui. Come ti chiami?”

“Satya”, rispose la bambina, guardando l’antro immerso in vapori luminosi.

“In una lingua antica Satya significa Verità. Io conosco la verità della matematica. È questo che cerchi?”, chiese la talpa.

“Non esattamente”, disse Satya al professore. “Spero di trovare il luogo dove non tramonta mai il sole”.

“Vuoi dire la terra del sole a mezzanotte?” chiese la talpa mentre prendeva del gesso per scribacchiare una formula numerica su una delle pareti.

“Credo di sì”, rispose Satya.

“E dimmi: perché ci vorresti andare?”

“Ho lasciato il mio albero in una terra lontana per sfuggire all’oscurità”, rispose la bambina. “Per molti giorni ho inseguito il sole, alla ricerca della luce. Ho incontrato degli amici, visto e scoperto molte cose bellissime; poi, qualcuno mi ha parlato di te. Mi hanno detto che tu conosci la strada che conduce al luogo della luce perpetua e quindi sono venuta qui per incontrarti;  in verità ancora non so perché sto fuggendo dall’oscurità”.

“Il buio è solo una percezione”, disse la talpa manipolando delle provette ribollenti. “A seconda di quello che gli occhi avvertono, vedi la luce o il buio. Tu stessa, in realtà, sei più di quello che i tuoi occhi distinguono; sei ancora di più del buio e della luce messi insieme”.

Mentre la talpa parlava, Satya la osservava con molta curiosità. Un paio di enormi occhiali, quasi troppo grandi per il suo viso, nascondevano dei piccoli occhi intelligenti.

“E questo dove l’hai imparato?” chiese lei, quando un’improvvisa fiammata accese la caverna.

“Da nessuna parte”, replicò la talpa. “L’esperienza me l’ha insegnato molti anni fa quando i miei occhi smisero di distinguere la luce. Fu allora che compresi che siamo più di quello che i nostri occhi riescono a vedere”.

Satya rimase silenziosa per un minuto, poi un rumore martellante, seguito da una colorata esplosione, la fece sobbalzare. Il cuore le batteva furiosamente ma la talpa era più calma che mai e continuava imperterrita a lavorare nella caverna ripiena di provette ribollenti di ogni forma e dimensione.

Le chiese quindi: “Che intendi, quando dici che i tuoi occhi hanno smesso di percepire la luce? Sei cieco?”

“Solo coloro che scelgono di non vedere sono davvero ciechi”, rispose la talpa mentre si concentrava sui suoi esperimenti.  “Dopo tutto, la luce del sole brilla anche di notte quando la luna riflette i suoi raggi luminosi”.

Satya fu colpita dalle sue parole. In un certo senso era come se le stesse dicendo che non c’era bisogno di viaggiare tanto lontano, fino al luogo dove il sole non tramonta mai. Una parte di sé lo comprese ma sentiva ancora la necessità di scoprire qualcosa e, rivolgendosi allo scienziato con grande rispetto, gli disse: “Comprendo ciò che dici, che devo vedere al di là delle mie paure, ma è difficile da spiegare a parole. Proprio come te, devo farne l’esperienza da sola. Soltanto trovando il luogo della luce perpetua, capirò ciò che davvero vuoi dirmi”.

“Lo so”, disse la talpa con convinzione, “non dimenticare però che la sperimentazione autentica è un’arte, che coinvolge tanto la mente quanto lo spirito. Non si può sperimentare solo per il gusto di farlo; testare gli elementi senza motivo né scopo. Gli esperimenti si svolgono con attenzione e ponderazione altrimenti non condurranno mai a niente di buono”.

Immergendo il dito in una scodella di pittura fresca, la talpa poi abbozzò un diagramma sul muro: “90N e 90S.”

“Cos’è 90N?” chiese Satya.

“É una delle coordinate per il Polo Nord terrestre, il punto più settentrionale della terra”, spiegò la talpa.  “Una volta lì, dovrai raggiungere il nord del Circolo Artico. La latitudine lì è 66° 33’ 44’’ a nord dell’Equatore. D’estate il sole splende per ventiquattro ore; però l’Artico è un posto desertico, coperto perennemente di ghiaccio”.

“Com’è possibile che non vi sia vita in un luogo dove splende sempre il sole?”.

“É il punto d’equilibrio che si trova tra gli opposti che crea l’armonia nella vita”, disse la talpa.

“Che vuoi dire?”

“Lo scoprirai da sola quando arriverai lì”, rispose la talpa, guardandola in un modo che esprimeva molto di più di quello che lui era in grado di vedere.

Ringraziandolo per i suoi preziosi consigli, Satya lo rassicurò, “Non ti preoccupare. Seguirò l’arte della sperimentazione autentica”.

Nel salutarla la talpa si chinò leggermente, come se riconoscesse in lei una luce appena nata.

Dall’altro lato della caverna,  Narcy e Rikke aspettavano Satya ansiosamente. Nel vederla Narcy non poté contenere l’eccitazione. “Com’è andata? Ti ha indicato la strada?”

“Sì!” esclamò Satya. “Dobbiamo viaggiare verso nord, fino al Circolo Artico”.

“Benissimo!”, disse Rikke. “Muoviamoci subito!”

“Non pensavo che volessi venire con noi”, fece Satya sorpresa.

“Ho cambiato idea”, annunciò il falco.

“Bene, prima però, lascia che ti dia la perla di luce che ti ho promesso”, disse porgendo il prezioso ciondolo al falco.

“Ah, Niñita!” gridò il falco. “Ho aspettato per molto tempo di possedere qualcosa di così bello. Hai ragione, questa perla è un gioiello molto speciale e infatti venderla mi renderebbe il falco più ricco di tutto il deserto ma ora non posso più accettarla da te”.

“Perché no?” domabdò Satya. “Mi sono impegnata a dartela se mi avessi indicato la strada per il vulcano della talpa”.

“Lo so”, sorrise, “ma vedi, dal momento in cui ho incontrato te e Narcy sento che sto diventando sempre più ricco”. E restituì il ciondolo a Satya.

X - IL TRAMONTO INFINITO

Risalirono dalla bocca del vulcano e il cuore di Narcy si riempì di gioia come se stesse per esplodere: finalmente aveva trovato gli amici che cercava da sempre e. ora che volavano insieme, non li avrebbe mai abbandonati.

I tre si avventurarno così nei freddi venti settentrionali e Satya moriva dalla voglia di raggiungere il circolo Artico. Aveva così tanto sperato di arrivarci che aveva gli occhi spalancati per l’eccitazione. Mentre attraversavano montagne ricoperte di neve e crinali, fiordi e laghi ghiacciati, il paesaggio cominciò a mutare. L’aria diventava sempre più fredda e il sole velato, quasi troppo debole per splendere.

All’improvviso scomparvero le montagne ricoperte di neve e la foresta boreale lasciò spazio a vaste, desolate pianure ghiacciate che si estendevano oltre la portata della loro vista.

Un enorme stormo di uccelli volava nella loro direzione; erano così numerosi che Satya si chiese dove fossero diretti; con i becchi rossi, le piume grigiastre e le lunghe ali angolari apparivano progettati per la velocità. Si muovevano così celermente che parevano rincorrersi. Sembrava che fossero tutti in fuga da qualcosa, pensò; perché altrimenti volare nella direzione esattamente opposta alla loro?

Pochi minuti più tardi, quando i volatili si avvicinarono a Satya, non aveva più alcuna importanza sapere dove fossero diretti. A quel punto, era chiaro che Narcy doveva assolutamente evitarli. I pennuti però si precipitavano verso di loro e la bambina si rese conto che sarebbe stato quasi impossibile schivarli. Lo stormo era così fitto che Satya ebbe l’impressione che stessero per schiantarsi contro uno gigantesco muro nero.

Sebbene Narcy avesse abilmente cercato di planare fra loro, gli uccelli li circondavano. Volavano sopra e intorno a loro, in ogni direzione e senza neanche notare l’unicorno. Cingendo le braccia al collo di Narcy, Satya si chinò per evitarli; anche Rekke  si aggrappava forte con gli artigli temendo di venire travolto. Un uccello sfiorò la testa di Satya, poi un altro rimase intrappolato  nei suoi capelli; lei lo scacciò, agitando le mani febbrilmente ma, con le zampe impigliate nei suoi lunghi riccioli d'oro, il volatile le  graffiava  la nuca.

Quando finalmente volò via, Satya si rese conto che la perla di luce era sparita; mentre lo stormo la sorvolava ancora cominciò a cercarla convulsamente tastandosi ansiosamente il collo con le dita.  Infine la vide appesa ad un lembo del suo vestito, appena sopra le caviglie. Immediatamente, si chinò per afferrarla, ma mentre si allungava la perla di luce cadde nel vuoto. “Narcy!” strillò con tutto il fiato che aveva in gola. “Mi è caduta la perla, dobbiamo trovarla”.

Così Narcy riunì le ali come aveva fatto durante l’incendio e scese in picchiata attraversando lo stormo, più veloce della luce. Il cielo finalmente si schiarì e gli uccelli scomparvero. Ciò malgrado non riuscivano a vedere la perla; mentre stavano volando più vicini al mare Rekke, ancora una volta, fu velocissimo ad identificare il pendente luminoso.

“Guardate qui!” esclamò indicando un punto nel mare. Narcy lo sorvolò immediatamente, fermandosi sull’acqua  proprio dove aveva indicato Rikke. Ora la perla era visibile; irradiava un po’ di luce, una luce che diventava sempre più debole mano a mano che il gioiello affondava nell’acqua; ancora qualche secondo e sparì, persa per sempre nei vasti abissi del mare Artico.

Narcy rimase in silenzio ed anche Satya e Rekke non proferirono parola. Il falco riusciva a stento a immaginare cosa provasse Satya in quel momento. Sapeva quanto tenesse alla perla ed anche per questo aveva deciso di rinunciarvi e lasciargliela. Ed ora cosa poteva fare? Tuffarsi e prenderla pensò. Sarebbe morto di sicuro, l’acqua era troppo fredda per lui eppure la osservò per un istante chiedendosi se ce l’avrebbe fatta. Scrutando gli abissi marini rimase sconcertato quando vide apparire una flebile luce. Per la prima volta Rekke non credette ai suoi occhi quindi li chiuse e li riaprì varie volte per assicurarsi di non star sognando eppure più guardava e più la lucina aumentava d’intensità.

“Satya guarda qui”, urlò di nuovo mentre la fioca luce emergeva dalle profondità dell’oceano. “É la mia perla”, gridò mentre un tricheco gigante emerse dall’acqua trascinandosi su un iceberg vicino con la perla che gli pendeva da una delle zanne. Narcy discese sull’iceberg galleggiante e Satya si precipitò verso il tricheco. Il massiccio animale era più pesante di un orso e più grasso di una foca. Sembrava piuttosto anziano con la pelle segnata da rughe profonde e la pinna sinistra avvolta in un calzino.

La squadrò per un minuto con un sorriso dolce ed affettuoso poi con voce rauca le chiese: “ Non sei della terra del sole a mezzanotte, vero”?

“No”, disse, “vengo da un altro luogo, piuttosto lontano da qui, un posto meraviglioso”.

“Cos’ha di tanto bello?” chiese il tricheco con la perla ancora attaccata alla zanna.

“Ci sono tante cose lì”, disse la ragazza, “fiumi e laghi, montagne e foreste”.

“Capisco”, disse l’anziano animale, “non ce ne sono qui”.

“No”, rispose Satya, “qui però il sole non tramonta mai”.

“Sì, il sole splende tutta l’estate senza mai tramontare, ma se rimani abbastanza a lungo vedrai che si nasconde durante l’inverno. Anche qui abbiamo le stagioni e tutto cambia”.

”Davvero”? chiese Satya sorpresa

“Certo”, rispose. “Sai l’anno scorso i miei figli e nipoti andarono via da qui, di solito viaggiavamo tutti insieme in un grande branco di diciotto trichechi, una grande famiglia, no? Ma sto invecchiando e la mia pinna non mi permette più di nuotare bene, quindi ho voluto che andassero senza di me. È stato difficile convincerli ad andar via e ancor più vederli partire, ma non avevo scelta. Qui c’è poco cibo e i giovani hanno bisogno di mangiare per crescere così da diventare forti come lo erano i loro nonni; le stagioni trascorrono lentamente ora, ci penso ogni giorno ed immagino il momento in cui faranno ritorno”.

“Ritorneranno?” chiese Satya sollevando le sopracciglia.

“Per ora no”, disse il tricheco con gli occhi lucidi, “ed io divento sempre più vecchio”.

“Quanti anni hai?”

“Non sono sicuro. Alcuni anni fa mia figlia contò gli anelli sui miei denti, è così che noi stabiliamo la nostra età, è come contare i cerchi sulla corteccia di un albero”.

“E quanti anni ti disse che avevi?”

“Circa 92”.

“Oh, sei molto più giovane del mio albero” disse Satya.

“Davvero hai un albero? Tutto per te?” chiese il tricheco sorpreso. “Ho visto un solo albero in vita mia”.

Ci fu un attimo di silenzio. “Sì”, disse Satya dolcemente, “ho un albero meraviglioso, ha più di 150 anni, ma anch’io ho viaggiato a lungo, molto lontano dalla mia terra e l’ho lasciato lì tutto solo”.

Il tricheco sospirò profondamente e Satya lo guardò negli occhi piccoli che raccontavano la storia di una vita; in un istante percepì tutto il suo dolore e la solitudine di una vita senza figli e nipoti. Lo immaginò nuotare nell’oceano sconfinato insieme a loro, tutti e diciotto insieme. Doveva essere stato incredibilmente difficile per lui, rifletté, rimanere isolato in quel piccolo tratto di mare. Un luogo circoscritto, dove il sole non calava mai, almeno non per tutta l’estate, ma dove la luce del suo cuore era tramontata proprio come il sole in inverno dopo la partenza della sua famiglia. Allora si ricordò di Zen e del fiume che scorre sempre e capì come l’esistenza del tricheco si fosse davvero trasformata; d’altra parte però non sarebbe sempre stato triste e solo, pensò, perché per quanto i cambiamenti siano difficili non vi si può opporre resistenza; le cose sarebbero mutate nuovamente per lui ora che aveva trovato la perla di luce. E se non avesse abbandonato la ricerca della felicità, perfino quelle rughe profonde causate dalla sofferenza sarebbero un giorno scomparse. Oppure si sarebbero trasformate proprio come i colori del ruscello di Zen.  Dopo tutto, era sempre necessaria soltanto una notte affinché sorgesse il nuovo giorno.

Satya osservò le lunghe zanne del tricheco dalle quali pendeva la sua bellissima perla di luce. Questo sarebbe potuto essere un inizio per lui, pensò; ora che aveva trovato una piccola luce brillante, tutto poteva cominciare di nuovo da lì. Gli chiese quindi: “Cos’è questa bellissima perla che ti pende dalla zanna?”

“In realtà non lo so”, rispose il tricheco sorridendo, “È una cosa un po’ strana, l’ho vista cadere sul fondo del mare come piovuta dal cielo e risplendeva di luce bianca; sono rimasto incantato e l’ho raccolta. Poi la sua luce è diventata più intensa sotto i raggi del sole”.

“Oh sì, si vede che è molto particolare” disse la ragazza” “Dovrai sentirti fortunato ad aver trovato una cosa così preziosa”.

“Infatti”, replicò il tricheco.

“Ti porterà fortuna”, gli disse salutandolo con un bacio, “ne sono assolutamente certa”.

Il tricheco sorrise e gli occhi mostravano improvvisamente una traccia di felicità. Poi facendo rotolare il corpo pesante giù dall’iceberg con la perla di luce che ancora pendeva dalla zanna, disse: “Non dimenticarti del tuo vecchio albero”.

Satya ritornò dai suoi amici con il cuore ricolmo di gioia. Disse loro che la perla di luce che avevano visto dal cielo non era il suo ciondolo; dovevano averla scambiata per un riflesso del sole o dell’acqua. Rikke e Narcy non si spiegavano l’accaduto e anche perché Satya non fosse più così sconvolta, ma erano così preoccupati dal freddo intenso che ci rifletterono solo per un attimo.

“Fa davvero troppo freddo qui per me”, si lamentò Narcy, atterrando sulla punta di un iceberg.

“Se questa è la terra dove il sole non tramonta mai”, disse Rikke, “io preferisco qualsiasi altro posto!”

“C’è proprio molto poco qui intorno”, osservò Satya. “Soltanto acqua e ghiaccio dappertutto”.

“Sapevi che sarebbe stato così?” chiese Rikke.

“Beh, la talpa mi aveva avvertito”, confessò, “ma volevo venire a vedere con i miei occhi”, disse Satya.

“Cosa faremo adesso? Sono stanca e ho freddo”, disse Narcy.

“Anch’io!”, rispose Rikke.

“Dormiamo un po’”, suggerì Satya, stringendosi ai suoi amici.

Restando a guardare il cielo per ore, Satya sperò che la luce dell’Artico si dissipasse in modo da potersi assopire ma il sole continuava a splendere come se si fosse dimenticato di tramontare e la notte non giunse mai. Col freddo che le congelava mani e piedi, Satya richiamò alla memoria il calore del sole. Sperò che il ghiaccio si sciogliesse, ma l’Artico era spietato.   Allora si ricordò di quello che le aveva detto la talpa, dell’armonia e del punto di equilibrio che si trova tra gli opposti. La talpa aveva ragione, pensò. Al giorno deve seguire la notte, deve esistere il freddo affinché ci sia il caldo e dalla tristezza deve poter scaturire la gioia. Ricordò d’un tratto il deserto silenzioso e la meravigliosa melodia che Bilbie aveva improvvisato al clavicembalo; il suono degli orologi della lucertola e il suo incessante chiacchiericcio; il cielo scuro e sereno e le tante stelle luminose. Ad un tratto ripensò al fuoco che aveva bruciato il manto di Narcy. Per un attimo le parve di sentire il calore delle fiamme sulla pelle ed il sollievo provato nel tuffarsi nell’acqua fresca dell’oasi;  subito dopo ricordò la gioiosa danza di Narcy; le creature dello specchio lacustre che erano apparse e scomparse così rapidamente, proprio come le lacrime dell’unicorno.

Tanti ricordi affioravano rapidi nella sua mente ed ognuno rappresentava un momento del lungo viaggio verso il luogo dove il sole non tramonta mai.  Si chiese anche cosa fosse successo a Zen ed alla sua casa sull’acqua. Pensò che doveva già aver finito di costruirne una nuova; ma, anche se non l’avesse ancora completata, Zen sarebbe stato comunque felice ovunque si trovasse. Dopo tutto le aveva detto che il fiume della felicità scorre ben lontano dall’attaccamento alle cose.

Eppure le sembrava che l’armonia creata dal punto di equilibrio che si trova tra gli opposti andasse ancora oltre: era come l’arcobaleno che aveva visto nell’oasi, quello che splendeva tra due nubi, un continuo spettro di colore dai tanti toni diversi.  Il viola non era semplicemente viola, ma anche indaco, lavanda e porpora, e il rosso non era semplicemente rosso, ma anche rubino, rosa, arancione e magenta. Ora lo sapeva perché l’unicorno le aveva mostrato come riconoscere la vera bellezza ed il falco aveva insegnato all’unicorno che la bellezza assume svariate forme.

Allo stesso modo, le ombre nascevano dalla danza del buio e della luce e i tramonti scaturivano dalle tante sfumature di colore. Fu allora, nello spazio che separa gli opposti, nel dolcissimo abbraccio delle forze, che il cuore di Satya finalmente si accese come un faro, caldo e luminoso. Una luce scintillante apparve intorno a lei, più brillante di qualsiasi tramonto che avesse mai visto.

Questa sensazione durò, però, solo un minuto, poiché Satya ricercava il buio e tutto cambiò di nuovo.  Per la prima volta immaginò di essere avvolta dall’oscurità. Allora la luce scintillante scomparve e la notte la riparò dal freddo come una coperta.

Come per magia, le tenebre divennero il rifugio dalla brillantezza dell’Artico e Satya riuscì infine ad addormentarsi e soprattutto scoprì, finalmente, che il luogo dove il sole non tramonta mai era molto più vicino di quanto avesse immaginato e sempre raggiungibile, in ogni dove: la luce che collega tutte le cose non le era più invisibile. Ora poteva sempre trovarla, anche quando tutto intorno a lei sarebbe cambiato.

Fu allora che, il volto illuminato da un sorriso profondo e radioso, disse ai suoi amici: “Torniamo al mio albero”.

***

Copyright © Marzia Bisignani, 2012, tutti i diritti sono riservati all'autore.



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