Partiamo dalla constatazione che Gomorra è stato il caso editoriale – e non solo – più interessante degli ultimi anni. Dall’anno 2006 della prima edizione al maggio 2009 ne sono state vendute oltre 2 milioni di copie in Italia, e oltre 10 milioni nel mondo. Roberto Saviano, che dall’anno della pubblicazione vive sotto scorta, è considerato un fulgido esempio di virtù civile, se non un eroe (con alcune eccezioni non degne della nostra attenzione). Lo si invita a qualsivoglia tipo di manifestazione culturale come testimone vivente dell’impegno civico e morale, in quanto uomo che vive e ha vissuto sulla propria pelle le estreme conseguenze di una presa di posizione. Lo si interpella come giornalista e commentatore sui fatti di mafia, camorra e simili. L’enorme attenzione alla sua vita mette però in ombra una parte non meno importante della sua opera: la componente letteraria.
Forse vi sorprenderà saperlo, ma la critica letteraria considera Gomorra uno dei libri significativi dell’ultimo decennio. E non solo, certo, per il suo status di perenne bestsellers. Intanto per la forma. Gomorra, notoriamente, non rispetta la forma tradizionale del romanzo. Se si chiedesse ad un lettore di classificare il libro, molto probabilmente lo infilerebbe sotto la categoria ‘saggio’. Gomorra, infatti, racconta storie, ma, in un certo qual modo, fa di tutto per nasconderlo. Il peso della realtà è così esorbitante che la componente più tipicamente romanzesca ne viene schiacciata – ma non per questo soccombe – . Non è difficile, infatti, trovare momenti tipicamente letterali, in cui prevale una dimensione lirica, metaforica, completamente soggetivista, come nel caso della magistrale descrizione del porto di Napoli: “Tutto quello che esiste passa di qui. Qui dal porto di Napoli. Non v’è manufatto, stoffa, pezzo di plastica, giocattolo, martello, scarpa, cacciavite, bullone, videogioco, giacca, pantalone, trapano, orologio che non passi per il porto. Il porto di Napoli è una ferita. Larga. Punto finale dei viaggi interminabili delle merci. Le navi arrivano, si immettono nel golfo avvicinandosi alla darsena come cuccioli a mammelle, solo che loro non devono succhiare, ma al contrario essere munte. Il porto di Napoli è il buco nel mappamondo da dove esce quello che si produce in Cina, Estremo Oriente come ancora i cronisti si divertono a definirlo. Estremo. Lontanissimo. Quasi inimmaginabile. Chiudendo gli occhi appaiono kimono, la barba di Marco Polo e un calcio a mezz’aria di Bruce Lee. In realtà quest’Oriente è allacciato al porto di Napoli come nessun altro luogo. Qui l’Oriente non ha nulla di estremo. Il vicinissimo Oriente, il minimo Oriente dovrebbe esser definito. Tutto quello che si produce in Cina viene sversato qui. Come un secchiello pieno d’acqua girato in una buca di sabbia che con il solo suo rovesciarsi erode ancor di più, allarga, scende in profondità.” Ma allora, che cos’è questo Gomorra? Facciamoci per un attimo contagiare dalla febbre di definizioni tipica della critica. Un saggio, un romanzo, un reportage? Forse tutto questo insieme? Wu Ming, nel Memorandum 2.0, lo definisce un UNO, ovvero un oggetto letterario non identificato. L’autore/gli autori del Memorandum inseriscono in questa categoria una serie di opere letterarie apparse in tempi piuttosto recenti a cui sia impossibile applicare una definizione netta. Casi di contaminazione – non ibridazione, che a Wu Ming i postmoderni non stanno simpatici, ma di questo parleremo un’altra volta -. Spinazzola, da Tirature (leggi rivista introvabile specializzata in letteratura contemporanea, in senso letterale) lo porta ad esempio della ‘romanzizzazione’, tendenza ad attribuire caratteristiche romanzesche a prodotti di altri generi letterari, e viceversa. Il suddetto lo porta anche ad esempio cardine di una nuova ‘corrente letteraria’, il New Italian Realism. Ma anche di questo si parlerà un’altra volta, che non si vuole annoiare i lettori di buona volontà. Il risultato è comunque un libro che galleggia nella palude dell’indefinibile, a metà tra generi e obiettivi diversi, che vuole informare, certo, ma che lo fa raccontando.
La mente corre, inevitabilmente, ad un altro libro che si proponeva obiettivi simili: Petrolio di Pier Paolo Pasolini. E non solo perché in Gomorra Saviano identifica chiaramente in Pasolini un modello umano e letterario (si veda la parte in cui il narratore va quasi in pellegrinaggio alla tomba del poeta, e ribalta la famosa affermazione pasoliniana ‘Io so, ma non ho le prove’ in ‘Io so, ed ho le prove’). In una celebre lettera a Moravia, Pasolini, descrivendo Petrolio, dice: “E’un romanzo, ma non è scritto come sono scritti i romanzi veri: la sua lingua è quella che si adopera per la saggistica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private o anche per la poesia (…).” In Petrolio, Pasolini tentava di esondare dalla categoria della forma, facendo del suo romanzo un oggetto universale. E tentava di raccontare il male ed il potere, usando la storia dell’Eni in senso metonimico (la parte per il tutto) e la sessualità in senso metaforico. Ma Petrolio è rimasto una bozza, un testamento, un fantasma. La morte prematura dello scrittore, su cui si allungano le ombre del potere e dell’interesse, ha fatto di Petrolio un orfano. Non abbastanza, però, per aver cancellato il peso dell’intenzione. Intenzione che forse, direttamente o meno, si è riflessa anche nelle pagine di Gomorra.
V.P.