Circa dieci anni fa mi capitò di leggere un’intervista a Biff Byford (cantante dei Saxon dagli inizi sino ai giorni nostri. Lo specifico per chi avesse vissuto su Marte negli ultimi quarant’anni) in cui ad un certo punto gli veniva chiesto come mai, secondo lui, i loro connazionali Iron Maiden avessero avuto un successo mondiale stratosferico a differenza dei Saxon, i quali, pur essendo nati nel medesimo periodo nell’ambito della stessa nazione/scena senza mollare mai, non hanno mai avuto nemmeno un decimo dei riscontri del gruppo di Steve Harris. Il succo della risposta ovviamente me lo aspettavo: questione di marketing. Ma Biff entrò nello specifico: il manager dell’epoca degli Iron Maiden, a differenza del loro, puntò moltissimo e sin dagli esordi sul mercato degli Stati Uniti, da sempre riferimento mondiale per chi vuole fare dal mezzo saltello in avanti in su, bombardando gli ammeregani di spot, accattivanti magliette con i mostri da bad boy dei film, tour lunghissimi e costanti, merchandising di ogni genere e chi più ne ha più ne metta. Oggi magari accade meno, per tanti motivi, ma agli inizi degli anni ottanta se riuscivi a sfondare negli Usa, di riflesso, arrivavi come un panzer in tutto il resto del mondo occidentale. Si cercò di mettere una pezza qualche anno dopo, addirittura tirando fuori un disco in linea con i gusti statunitensi, Innocence Is No Excuse, ma era già tardi: era il 1985, il fenomeno heavy metal era già esploso saturando il mercato, il thrash cominciava ad imporsi, così come glam/sleaze/cazzi vari ed eventuali, ed i Saxon per quel pubblico, da sempre velocissimo nel cambiare gusti seguendo le mode, erano già vecchi. Avevano perso il treno. Sembra il solito copione comune a molti gruppi dell’epoca, con il conseguente e logico epilogo: le già non esaltanti vendite calano, così come i tour, i soldi ad un certo punto non bastano più nemmeno per le bollette e si arriva allo scioglimento, con i membri del gruppo di turno che ci provano con generi duri che seguono la tendenza del momento, spesso finendo a tornare tra i normali, in fabbrica o in ufficio. E invece a ‘sto giro il seguito della storia è diverso: perché i Saxon decidono di non mollare. Hanno svariati scazzi interni, che ad un tratto li portano addirittura a sdoppiarsi (salto questa parte perché è lunga e noiosa) e arrivano al 2015, con alterne fortune, ventuno album, pochi passi falsi (e nemmeno troppo eclatanti) ed una discreta salute, nonostante l’età ed il periodo. La Germania è sempre stata una seconda casa per loro, ed infatti è proprio lì (sia come pubblico che come etichette) che si sono ancorati per rimanere a galla.
Battering Ram continua il discorso intrapreso dai Saxon nell’ultima parte della loro carriera (che io faccio partire dal post-2000, sino ad arrivare ad oggi), sia come scelta dei suoni che dal punto di vista prettamente musicale. Questo è di gran lunga il loro miglior album degli ultimi quindici anni, pochi cazzi. Diretto, senza troppi fronzoli – che a volte, nella loro storia recente, li avevano resi a tratti un po’ stucchevoli – , praticamente privo di riempitivi (a me piace persino l’epica semi-ballad/salcazzo di oltre sei minuti, Kingdom of the Cross. E chi mi conosce sa che è un vero e proprio evento eccezionale). La forza di questo disco è l’uniformità, diciamo così, e la semplicità. Non si perde in chiacchiere, suona esattamente come dovrebbe suonare un disco dei Saxon nel 2015 e non si fa mancare niente: potenza, melodia, riff, assoli e tutto al posto giusto. Byford non è mai stato un mostro di tecnica ed è anche arrivato alla veneranda età di 64 anni: ne è consapevole e rimane sempre al suo posto per tutta la durata dell’album, senza strafare. Battering Ram non è un semplice album heavy metal. E’ un disco dei Saxon, che suonano appunto heavy metal dal ’79, ma che non sa di vecchio, pur essendo parte di un genere che esiste da quasi quarant’anni. Se ripenso a quante volte da bamboccio ho consumato Power & the Glory (1983) e, soprattutto, Denim and Leather (1981), identificandomi pienamente con la title track (un inno più che una semplice canzone), cazzo, mi impressiono, perché sono passati tanti anni da allora e ne sono trascorsi ancora di più dall’uscita di quei dischi, ma io sono ancora vivo e lo sono anche loro, e siamo entrambi in buona forma, nonostante tutto. Ascoltare questo disco è stato come rivedere un vecchio amico dopo tanti anni e rimanere piacevolmente sorpreso dal ritrovarlo appesantito e magari un po’ imborghesito, ma sempre pronto a spaccare il culo quando serve. I Saxon sono come l’ex ragazza dei tempi dell’adolescenza, la prima che te l’ha preso in bocca con igoio: passeranno gli anni, di donne ne avrai tante altre, ma delle pompe così te le faceva solo lei. Battering Ram non è assolutamente un capolavoro, è lontanissimo dall’esserlo, non farà la storia (quella i Saxon l’hanno già fatta) e molto probabilmente se lo cacheranno solo in Germania o quasi, ma è veramente il massimo che un gruppo in giro da quarant’anni possa dare nel 2015, sotto tutti i punti di vista. Insomma: è un signor disco, questo, che vola per tutti i cinquanta minuti della sua durata. Quando finisce, ripremere il tasto play ti viene automatico, come sgrullarti il cazzo dopo aver pisciato, guidare o cacare dopo caffè-sigaretta.

