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Sblocca Italia, solo la Costituzione non si condona

Creato il 07 agosto 2014 da Albertocapece

COSTRUZIONI IN CRISI, FRA BOOM TASSE E DISOCCUPATIAnna Lombroso per il Simplicissimus

È uso comune che se vuoi nascondere un tranello in un contratto,   il sistema più efficace è affondarlo in un mare di commi, postille, note. Ha fatto così il governatore della Campania Caldoro, prendendo di sorpresa gli stralunati membri del consiglio che hanno votato  a maggioranza la riapertura dei termini del condono edilizio fino al 31 dicembre 2015, cancellando una serie di norme e vincoli sulle aree protette, perfino quelle della costiera sorrentina e amalfitana, e autorizzando  aumenti di volumetrie anche nelle zone rosse, quelle a rischio accertato del Vesuvio, qualora siano finalizzate, per uno sconcertante ossimoro,  “alla stabilità” e al risparmio energetico degli edifici.

Il Pd  ha abbandonato l’aula, ma c’è da sospettare che l’improvvisa resipiscenza sia stata suscitata più da motivi elettorali che da nobili intenti di tutela del territorio, a leggere la mappa di colate di cemento che riserva a tutto il Bel Paese il decreto “sblocca Italia”, crisantemo all’occhiello del governo e che finanzia un lungo elenco di grandi opere,   31,6 miliardi per  quattordici maxi interventi:  l’Alta Velocità Napoli-Bari,  l’Alta Velocità Torino-Lione,  l’Autostrada Orte-Mestre, la Ferrovia Messina-Catania-Palermo, l’Autostrada Valdastico Nord, le Infrastrutture dell’Aeroporto di Fiumicino, il Passante autostradale di Bologna,  l’aeroporto  Cristoforo Colombo,  l’asse viario Lecco-Bergamo, il  Collegamento ferroviario Novara-Malpensa,   il  Quadruplicamento asse ferroviario Lucca-Pistoia, l’autostrada tirrenica Civitavecchia Livorno. E quasi due miliardi per 14 opere minori.

Sono un sacco di quattrini, scritti sulla carta. Ma la maggior parte dei finanziamenti, come rivendica Renzi,   , sono “già conteggiati”: il governo si impegnerebbe a stanziare risorse fresche ogni anno per le grandi opere per circa 4,5 miliardi, e altri 3,7 (ma in 6 anni) saranno destinati alle miriadi di piccoli e grandi cantieri aperti e fermi, così che, come ha detto Lupi, il Paese rialzi la testa. E meglio che guardi in alto in modo da non vedere cosa succede per terra, sui suoli, nell’acqua,  proprio in prossimità con il disastro di Refrontolo,  anticipato da un trailer molto esplicito a febbraio, che si convinca dei benefici effetti di quella cartina di nuove autostrade   più sfrontata e ambiziosa della mappa di Berlusconi, altrettanto colorata e probabilmente altrettanto senza copertura, pensata e promossa per dare ossigeno solo virtuale all’illusione della crescita,  sostegno concreto alle cordate dei soliti noti, quelli dell’Expo, quelli del Mose, quelli della Tav,  anche grazie a semplificazioni, incentivi e sgravi fiscali per rilanciare i loro  investimenti,   project bond e forme di parternariato, di quelle che pendono sempre da una parte sola.

E dire che secondo l’Associazione Nazionale Costruttori, non Legambiente o Italia Nostra, un piano nazionale per la messa in sicurezza del territorio richiederebbe un investimento annuo di 1,2 miliardi diluito in vent’anni, che assorbirebbe manodopera, creerebbe occupazione,  garantirebbe salvaguardia e tutela.  Ancora l’Ance in un rapporto del 2012 denunciava  che  il 6,6% del territorio nazionale è in frana, il 10% a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico. Che i  costi della mancata manutenzione sono stati valutati in 3,5 miliardi di euro l’anno (senza contare i morti),  che dal 1985 al 2011 si sono registrati oltre 15.000 eventi di dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti. E che prosegue il consumo dissipato di suolo, regalandoci il primato in Europa, dove il consumo medio del suolo è del 2,8%, a fronte del  6,9% per il nostro Paese, circa otto metri quadrati al secondo,   per ciascun secondo degli ultimi cinque anni (e il Lombardo-Veneto è al primo posto).

Eh si perché secondo tutti i governi che si sono susseguiti, è sufficiente riaprire i cantieri e mettere in moto le betoniere per far ripartire lo sviluppo. Una volta si ricorreva a guerre tradizionali che prevedevano una festosa e profittevole ricostruzione, adesso la guerra è di un tipo più moderno, è contro la qualità della vita di tutti, i beni comuni, il paesaggio, la bellezza, la cultura, il lavoro e la cittadinanza.  E quindi anche contro la Costituzione: l’altro capitolo aperto è quello del ddl a firma Lupi, che si sente più a suo agio  con Matteo che con Silvio,   riguardante i principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana. E che fin dal primo articolo mette in chiaro contenuti e forme della grande riforma, stabilendo chi conta, chi ha diritto, chi deve essere garantito. Beh, sappiatelo, non siamo noi, a differenza di quello che postulava la Carta, ormai vista come  tabù da infrangere e ostacolo da rimuovere al dispiegarsi del “fare”, laddove stabiliva vincoli e obblighi alla proprietà privata in nome dell’utilità collettiva, sancendo il principio della “funzione sociale” della proprietà.

Macché, probabilmente re Giorgio ci dirà che anche su questo i padri costituenti si sono fatti prendere la mano dal populismo. Adesso ci si deve muovere nel segno della crescita, del profitto, dell’egemonia dell’iniziativa privata a dispetto di quella pubblica, le cui facoltà sono limitate affinché non comporti disdicevoli riduzioni al valore immobiliare dei terreni. E se l’articolo 1 conferisce ai proprietari il diritto di iniziativa e di partecipazione nella pianificazione, al fine di  “garantire il valore della proprietà”, l’articolo 8  recita che  il governo del territorio deve essere regolato “in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata, la sua appartenenza e il suo godimento”.

E così lo spazio pubblico diventa una geografia non identificabile, in modo da essere ancora meno governata e tutelata, così secondo quello che è stato definito un vero e proprio accanimento su dei morituri,   gli standard urbanistici, viene lasciata licenza di uccidere, discrezionalità e arbitrarietà a ogni regione, così si mette un sigillo sulla pianificazione comunale, esautorando  l’ente locale delle funzioni di programmazione, indirizzo, vigilanza e riducendo le competenze alla mera attività di “ricognizione”. E finora non si è avuta notizia della legittima opposizione dei sindaci a questo esproprio: sarà perché si riconoscono tutti, marziani e non,  nel partito del sindaco d’Italia, che non ha nulla a che fare con gli italiani?

 

 


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