Mentre il mondo era intento a occuparsi della “diplomazia del koala”, con i leader del G20 apparentemente impegnati a esplorare nuove frontiere del compromesso internazionale facendosi ritrarre in foto sdolcinate con morbidosi marsupiali australiani, a fari spenti accadeva qualcosa di ben più rilevante.
Retroscena politici narrano infatti di un’inattesa complicità tra il premier Renzi e il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker. Inattesa perché il lussemburghese, come è risaputo, è finito nel mirino di un imbarazzante scandalo rivelato da una minuziosa inchiesta giornalistica: mentre Juncker era primo ministro del suo paese, tra il 1995 il 2013, più di 340 multinazionali sono accorse a fondare filiali nel lillipuziano e medievaleggiante granducato allo scopo di pagare tasse irrisorie.
Autorevoli testate anglosassoni, come Bloomberg e il Financial Times, numerosi media italiani nonché europarlamentari di diversi schieramenti, dal M5S al Front National fino all’estrema sinistra, hanno chiesto e continuano a premere perché Juncker si dimetta dalla sua carica.
Lo scandalo Luxleaks, insomma, è un terribile specchio delle disuguaglianze provocate dalla globalizzazione incontrollata. La tentazione di detronizzare Juncker per punirne uno ed educarne cento è dunque fortissima, e io stesso, se mi trovassi nei panni dei socialisti, da troppi anni vergognosamente succubi nei confronti dei popolari, faticherei a controllarla. Far cadere il presidente designato dalla destra conservatrice europea rappresenterebbe una vittoria politica per il Pd di Renzi e per tutti gli altri socialisti, e uno smacco per i fautori dell’austerità.
Facciamo, però, un passo in avanti e proviamo a immaginare cosa accadrebbe se Juncker si dimettesse o se il parlamento europeo, con una mozione di sfiducia, lo costringesse a compiere questo passo. A questo punto sarebbe necessario non solo designare un nuovo presidente ma anche riscrivere le nomine dei vari commissari europei. Dopo aver contribuito a far cadere l’ormai poco amato Juncker, il Pse si presenterebbe al tavolo delle trattative sperando di ottenere un reimpasto più favorevole e magari una linea economica più morbida rispetto a quella concordata finora.
Le istituzioni europee, messe in subbuglio dallo sbriciolarsi della Commissione, precipiterebbero in uno stallo poco auspicabile per tutti, soprattutto per i paesi del Sud, che hanno immediato bisogno di investimenti europei, come il piano di investimenti da 300 miliardi di Juncker, per quanto insufficiente esso sia. Difficile figurarsi uno scenario più congeniale per la retorica anti-europea dei Le Pen, dei Farage e dei Salvini.
Inoltre, una volta insediata la nuova Commissione e una volta evaporato lo scandalo lussemburghese dalle cronache – come è inevitabile che succeda, data la tendenza dei media e dell’opinione pubblica a perdere la memoria e farsi trainare dalla notizia sensazionalistica di turno –, i socialisti perderebbero per sempre un enorme vantaggio tattico. E chi si ricorderà più nel 2019 della figuraccia di Juncker?
Insomma, le dimissioni di Juncker sarebbero la più classica delle vittorie di Pirro. Se la sedia del lussemburghese cadesse, farebbe subito rumore, ma l’eco si disperderebbe presto nell’aria.
Per questo, Juncker è politicamente utile agli oppositori dell’austerità soltanto se rimane al suo posto. Juncker è debole, la sua credibilità è ai minimi e ha un disperato bisogno di alleati se non vuole passare alla storia come il primo presidente della Commissione legittimato dal voto che è stato costretto a farsi da parte.
Juncker, per di più, si trova in quella che, nel gergo politico, viene definita “l’alternativa del diavolo”, ovvero una situazione in cui si è costretti a scegliere tra due alternative entrambe rovinose. Nel suo caso, egli è impantanato in un delicato conflitto di interessi: in quanto presidente della Commissione, deve scegliere se prendere iniziative contro gli Stati con fiscalità agevolata e agire così contro il suo stesso paese; oppure, se salvare il suo paese con la spiacevole conseguenza di sottoporsi poi alla gogna dell’opinione pubblica europea.
Chiariamolo subito: Juncker non ha in ogni caso vie d’uscita. Ha già promesso che prenderà provvedimenti, tuttavia, come ha dichiarato all’Espresso Karel Lannoo, direttore esecutivo di un centro di studi europei, i suoi poteri sono troppo limitati perché possa armonizzare da solo la fiscalità europea. Non solo il Lussemburgo, ma anche Olanda, Gran Bretagna, Slovacchia, Estonia e Irlanda sono in misura diversa dei paradisi fiscali. Ci sono, insomma, troppi interessi in ballo perché la sua manovra di riparazione sia efficace. Anche armato delle migliori intenzioni, Juncker andrà a sbattere contro gli scogli e contro gli stessi esponenti del suo partito.
Se fossi Renzi, ma è probabile che questo il nostro premier l’abbia già capito, mi terrei perciò ben stretto Juncker. In questo momento, per i sostenitori della crescita, non esiste amico migliore del debolissimo Juncker, pronto a scendere a patti con chiunque pur di salvare la faccia.
Grazie a un presidente della Commissione quasi delegittimato, Renzi ha la ghiottissima opportunità di spostare l’agone politico direttamente nel Consiglio europeo, la vera stanza dei bottoni d’Europa, dove può trattare direttamente con la cancelliera Merkel scavalcando intermediari scomodi quale sarebbe un presidente uscito da un nuovo giro di consultazioni parlamentari.
Solo a condizione che Juncker non si dimetta, la rovente graticola del Luxleaks riuscirà quindi a far sudare anche gli arcigni difensori delle manovre lacrime e sangue.
Jacopo Di Miceli
@twitTagli