Vittorio Matteo Corcos, M'ama, non m'ama
Qualche gesto apotropaico non guasta.
Chissà come mai, ma in presenza del bene si teme sempre l'arrivo del male.
Soprattutto in vicinanza del amssimo bene, che è l'amore, se ne teme la distruzione, forse anche solo la dissipazione, lo smarrimento, la consumazione.
Anche i più razionali, i più saggi, i più materialisti, i più navigati e disincatati.
Alzi la mano chi non ha, almeno una volta, avuto la tentzaione di sfogliare margherite, di tirare a indovinare tra pari e dispari, tra bianco e nero. Tirare su la paglia più corta, cercare auspici dai solitari fatti a carte, dall'arrivo di inconsapevoli passanti, dal passaggio delle nuvole.
Ci sono momenti di incertezza, di sospensione, di paura. Momenti in cui anche un nome sentito per caso, un motivetto musicale che non significa niente per nessun altro, sembra offire speranza o minacciare disperazione.
Non è qualcosa che appartiene solo alla prima adolescenza, alle prime cotte quasi infantili, agli amori liceali.
L'amore ha sempre in sé questa gioventù miracolosa, questa rinata ingenuità, questo potere arcano di farsi percepire come un tutto nuovo, un tutto diverso, una prima volta della storia del mondo.
E l'amore, quello vero, è capace di creare ansie e stordimenti anche dopo vent'anni e più di consuetudine, di spingerti a contare i passi e le mattonelle per strada: se saranno dispari, mi amerà; se saranno pari si sarà stancato di me.
E a barare: sciaguratamente, ingenuamente, spudoratamente barare. Perché anche il presagio sia compiacente, consolante, rasserenante.
Perché abbiamo bisogno, in certi casi, che siano le cose a parlare, il caso, il niente, il resto del mondo, incapaci di sentire la nostra voce razionale o la tranquilla calma del tempo passato insieme.
Eppue è bello anche così. Proprio perché è così.