Quando ho preso in mano per la prima volta Scatole cinesi. Quattro stagioni per il detective Malone, dell’autore greco Soti Triantafillou, sinceramente non sapevo cosa aspettarmi. La trama fa giustamente pensare a una sorta di giallo, ma qualcosa mi suggeriva che si trattava di un thriller piuttosto anomalo, o meglio, di uno di quei romanzi la cui complessità non può esaurirsi in una breve e asettica definizione di genere. Tanto per cominciare, mi ha mandata in confusione una specie di “promiscuità geografica”, presumo voluta e ricercata: a scrivere è un greco, mentre il personaggio principale è un americano d.o.c., cresciuto nei bassifondi della New York degli anni Settanta, e tuttavia sin dalle prime pagine è evidente come l’intero romanzo, a partire dal titolo, sia impregnato di cultura cinese. Questo curioso minestrone razziale ben rispecchia la realtà multietnica della New York che si apprestava a lasciarsi alle spalle i burrascosi anni Ottanta per entrare nei Novanta, gli anni del governo di Giuliani, l’uomo che nel bene e nel male avrebbe dato un nuovo volto alla città.
Ci sarebbe riuscito mediante una “operazione di pulizia” rigorosa, misure sociali caratterizzate dalla tolleranza zero e un autoritarismo ai limiti del consentito: erano queste le caratteristiche principali di una politica che avrebbe fatto piazza pulita di gran parte della delinquenza che nel 1989 – anno in cui è ambientato il romanzo – rendeva New York una delle città più pericolose dell’intero globo, crocevia della criminalità mondiale, dove la polizia assisteva impotente a un numero di omicidi così scandalosamente alto da poter tranquillamente essere definito una strage senza esclusione di colpi, che non risparmiava nessuno.
Bianchi, neri, gialli ed ebrei venivano colpiti alla stessa maniera, e ogni minoranza – etnica o religiosa che fosse – vedeva ai vertici organizzazioni estremiste che si scontravano continuamente tra loro, seminando panico e violenza. Apprendiamo tutto questo grazie a un illuminante prologo che adempie perfettamente alle sue funzioni esplicative, proiettando il lettore in un tempo e un luogo ben determinati – la New York del 1989, appunto, che vedeva il primo sindaco nero della sua storia, David Dinkins.
Proseguendo la lettura, ci si rende conto che in realtà l’elemento “giallo” – una catena di delitti eterogenei e apparentemente scollegati tra loro, fatta eccezione per l’identico tatuaggio trovato sui corpi delle vittime – è solo un “pretesto” per consegnare al lettore il ritratto fedele di una società multietnica, complessa, degradata eppure affascinante, in cui l’umanità è presente in tutte le sue declinazioni potenzialmente infinite, sfumature che riecheggiano nella galleria di personaggi che popolano questo romanzo, una delle opere più autenticamente letterarie che abbia letto negli ultimi tempi (cosa non facile, in un periodo che ormai dura da diversi anni in cui la fiction si è impossessata anche della letteratura).
Pigro e indolente, cinico e amareggiato, il detective Malone affronta la città nella stessa maniera in cui affronta la gente con cui viene a contatto: senza farsi illusioni di sorta, senza aspettarsi nulla né chiedere nulla alla vita, se non di continuare a sopravvivere così, sospeso in un tempo che non passa mai – colpa anche dell’incurabile, emblematica insonnia che lo affligge da quando la sua compagna se n’è andata di casa per sposare un altro – e in una giungla umana dove l’incrocio tra culture diverse, anziché arricchire l’uomo, si rivela una bomba a orologeria costantemente sul punto di esplodere, come sempre accade quando regna la miseria spirituale ed economica.
Il “sogno americano” – incarnato soprattutto da Deni, la segretaria di Malone, trasferitasi in città dalla provincia per cercare fortuna e una vita diversa da quella cui era destinata – non potrebbe essere più lontano di così: da New York al profondo Midwest, gli Stati Uniti cercano faticosamente di costruirsi un’identità nonostante l’intolleranza e il razzismo imperante, e nonostante quelle che possono essere definite le epidemie del Novecento, ossia le droghe pesanti, l’eroina soprattutto, e l’AIDS, il male del secolo. Emblematico, infine, il ruolo della cultura cinese, oscura e pervasiva come nella migliore tradizione letteraria. New York, come altre metropoli mondiali, ha in sé un pezzo di Cina che Malone conosce molto bene, dal momento che il suo ufficio si trova nel cuore di Chinatown.
Fanatico di medicina e oroscopo cinese, di feng shui (disciplina orientale che si propone di orientare favorevolmente l’energia degli ambienti mediante la disposizione degli arredi) e biscotti della fortuna, questo anomalo detective sa bene che, a differenza delle altre culture, quella cinese è particolarmente ostinata e resistente, difficilmente permeabile dall’esterno; in un mondo senza logica né razionalità, dove la violenza è l’unica regola senza eccezioni (tale è lo scenario apocalittico descrittoci da Triantafillou) appartenere a qualcosa, sentirsi parte di qualcosa in cui ancora si riesce a credere, sembra essere l’unica soluzione per non impazzire del tutto.
Per illudersi che, nonostante tutto, qualcosa conti davvero.
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