Nei giorni scorsi ho guardato Downton Abbey, la serie inglese che recentemente ha vinto il Golden Globe come miglior mini-serie dell'anno (in Italia Rete 4 ha trasmesso la prima stagione lo scorso dicembre). Come milioni di spettatori nel mondo, ho finito per farmi prendere dalla trama intricata e mélo, affascinato prima di tutto dal décor d'inizio '900 e dalla atmosfere nostalgiche e paludate che erano già di Gosford Park (e infatti l'autore Julian Fellowes è anche lo sceneggiatore del film di Altman). Downton Abbey è un feuilleton ottocentesco spostato in avanti di una quarantina d'anni, nel periodo cruciale del XX secolo tra gli anni Dieci e il primo dopoguerra: un arco temporale che in questi mesi, per ragioni ancora da scoprire e su cui riflettere, è tornato di gran moda (Cronenberg, Scorsese, Spielberg e Allen hanno tutti quanti girato i loro ultimi film nei primi due decenni del '900). Downton Abbey parla di aristocratici, di camerieri, di maggiordomi, di sguatteri, di ereditiere, di socialisti, di magnati, di cappelli, di bastoni da passeggio, di cacce alla volpe, di cene eleganti, di regole assurde da ululato, di codici d'onore da galera, di bassezze da polpettone, di gente ingabbiata in un mondo dorato e di altra gente capace di cogliere il mutare del tempo e la fine delle epoche. Soprattutto, Downton Abbey racconta le avventure del cuore e dell'ambizione, dell'abnegazione e della rinuncia, di una ventina di personaggi che rendono i singoli episodi puzzle di storie accennate e spunti per sviluppi successivi. In questa struttura controllata ma schizoide c'entra naturalmente la dimensione seriale del prodotto, la necessità di offrire allo spettatore/lettore (siamo pur sempre nella dimensione del romanzo) un'ampia gamma di emozioni. Tutto previsto e prevedibile. E pure coinvolgente: basta stare al gioco. Ma ciò a cui ho pensato guardando gli episodi avvincenti ed eccessivi, monopatici e impagliati, di Downton Abbey è che la narrazione, a volerla prendere di petto, senza pause e senza andare troppo per il sottile, è una dannazione. Le storie necessitano di pause, di punti morti, di sfumature, mentre quello di cui certa tv (e certo cinema) hanno bisogno è un movimento costante, un continuo spostamento del racconto. Nel cinema classico questa frammentazione del quadro, nonostante la tenuta della cornice, non esisteva; c'era l'equilibrio degli elementi e se qualcosa era squilibrato, al tempo stesso era anche segnalato, previsto, in qualche modo compensato. Come capisce Harry Pebbel, il produttore hollywoodiano del Bruto e la bella di Minnelli, dopo il fallimento di un progetto magniloquente, un film di sole scene madri non può essere esistere. Una serie a volte sì.
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Nei giorni scorsi ho guardato Downton Abbey, la serie inglese che recentemente ha vinto il Golden Globe come miglior mini-serie dell'anno (in Italia Rete 4 ha trasmesso la prima stagione lo scorso dicembre). Come milioni di spettatori nel mondo, ho finito per farmi prendere dalla trama intricata e mélo, affascinato prima di tutto dal décor d'inizio '900 e dalla atmosfere nostalgiche e paludate che erano già di Gosford Park (e infatti l'autore Julian Fellowes è anche lo sceneggiatore del film di Altman). Downton Abbey è un feuilleton ottocentesco spostato in avanti di una quarantina d'anni, nel periodo cruciale del XX secolo tra gli anni Dieci e il primo dopoguerra: un arco temporale che in questi mesi, per ragioni ancora da scoprire e su cui riflettere, è tornato di gran moda (Cronenberg, Scorsese, Spielberg e Allen hanno tutti quanti girato i loro ultimi film nei primi due decenni del '900). Downton Abbey parla di aristocratici, di camerieri, di maggiordomi, di sguatteri, di ereditiere, di socialisti, di magnati, di cappelli, di bastoni da passeggio, di cacce alla volpe, di cene eleganti, di regole assurde da ululato, di codici d'onore da galera, di bassezze da polpettone, di gente ingabbiata in un mondo dorato e di altra gente capace di cogliere il mutare del tempo e la fine delle epoche. Soprattutto, Downton Abbey racconta le avventure del cuore e dell'ambizione, dell'abnegazione e della rinuncia, di una ventina di personaggi che rendono i singoli episodi puzzle di storie accennate e spunti per sviluppi successivi. In questa struttura controllata ma schizoide c'entra naturalmente la dimensione seriale del prodotto, la necessità di offrire allo spettatore/lettore (siamo pur sempre nella dimensione del romanzo) un'ampia gamma di emozioni. Tutto previsto e prevedibile. E pure coinvolgente: basta stare al gioco. Ma ciò a cui ho pensato guardando gli episodi avvincenti ed eccessivi, monopatici e impagliati, di Downton Abbey è che la narrazione, a volerla prendere di petto, senza pause e senza andare troppo per il sottile, è una dannazione. Le storie necessitano di pause, di punti morti, di sfumature, mentre quello di cui certa tv (e certo cinema) hanno bisogno è un movimento costante, un continuo spostamento del racconto. Nel cinema classico questa frammentazione del quadro, nonostante la tenuta della cornice, non esisteva; c'era l'equilibrio degli elementi e se qualcosa era squilibrato, al tempo stesso era anche segnalato, previsto, in qualche modo compensato. Come capisce Harry Pebbel, il produttore hollywoodiano del Bruto e la bella di Minnelli, dopo il fallimento di un progetto magniloquente, un film di sole scene madri non può essere esistere. Una serie a volte sì.
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