Qui Schegge sul sacro (II)
Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. (L. Wittgenstein)
Sappiamo che la storia del Cristianesimo è molto diversa da quella che ci è sempre stata raccontata. I Messia, con ogni probabilità, erano due: entrambi esprimevano una mentalità tipica del mondo ebraico. Sappiamo che fu Shaul-Paolo (chiunque si celi dietro questo nome) a creare la religione cristiana col tempo cristallizzatasi nelle chiese istituzionali, tombe della spiritualità.
Nonostante ciò, il racconto cristiano è un mito, nel senso alto del termine. E’ mito come narrazione archetipica, storia che racchiude in sé il dramma cosmico. E’ una vicenda che, trascendendo la storia, si situa nel mondo del simbolo. Per questa ragione le saghe che raccontano di dei che s’incarnano, soffrono, muoiono e risorgono si diramano pressoché ad ogni latitudine.
Che cos’è dunque questo mito? Di quali simboli si nutre? E’ un evento che sembra descrivere la caduta (che sia volontaria o imprevista qui poco importa) dello Spirito nel tempo e nella materia ed il suo anelito a ritornare nella pienezza (il Pleroma degli Gnostici) primigenia. Dunque con Cristo siamo noi che vestiamo un involucro materiale, soffriamo e moriamo con lo scopo di risorgere, di ritornare a casa.
Sarebbe stato possibile percorrere un’altra strada, meno disagevole e dolorosa? Nessuno può saperlo… Ormai siamo qui, in questo mondo. “Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele e, al tempo stesso, di una divina bellezza”. (Carl Gustav Jung) Come il mondo portiamo tutto il peso della contraddizione: siamo esseri ancipiti, prigionieri liberi, vittime di noi stessi, schegge che, pur illuminando la notte, la strappano.
Che cos’è la caduta? E’ anche il sorgere della coscienza, una catastrofe di proporzioni inimmaginabili, soprattutto quando essa si solidifica nel pensiero logico-discorsivo. Nietzsche denuncia questo declino. Egli vede nello spirito apollineo la luce accecante della ragione quadrata che fagocita il roseo chiarore dell’aurora.
Il sacro è aurorale, è una coscienza liminale, soffusa con le ultime ombre della notte mescolate ai primi barlumi dell’alba. E’ una coscienza immersa in una sorta di dormiveglia, in uno stato in cui i pensieri evaporano nel sogno. E’ una coscienza nascente, forse quella dei popoli arcaici che si immergevano, sino ad identificarvisi, nella natura, nel suo flusso vitale. Essi riuscivano a sublimare l’atrocità dell’esistere nell’arte, nel canto, nella poesia. La vita, linfa sacra, scorreva in ogni dove: nelle pietre, negli alberi, negli animali, nel vento, nelle stelle… Gli uomini erano esseri naturali e, quanto più obliavano sé stessi, erano sé stessi.
Oggi siamo inchiodati alla mente e crocifissi all’esistenza. Il simbolo della Croce evoca una tragedia universale che si ripete nella storia e nel singolo. E’ la tragedia della luce imprigionata nelle tenebre, anche della luce contraffatta. E’ la tragedia di chi sulla croce non ha neppure più la forza per sollevare il capo verso il cielo.
[1] La tensione apocalittica del Cristianesimo primitivo si esaurì presto ed oggi pochi si protendono verso una redenzione che, nella sua prossimità, pare confinata in un’immensa lontananza.
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