E' di pochi giorni fa, la notizia che lo stato del Mississippi aveva "dimenticato" di presentare la documentazione necessaria a ratificare - e quindi a rendere operativo - il tredicesimo emendamento della costituzione degli Stati Uniti d'America; l'emendamento che aboliva la schiavitù, circa 148 anni fa. Ragion per cui, in detto stato del Mississippi, almeno formalmente, la schiavitù sarebbe stata abolita il 7 febbraio di quest'anno, il 2013. La "dimenticanza" sarebbe stata scoperta grazie al recente film di Spielberg su Lincoln. Insomma, negli Stati Uniti, da Tarantino a Spielberg, la schiavitù è all'ordine del giorno.
Già, la schiavitù; eppure una volta - come spiega in modo esauriente l'articolo che segue - la schiavitù era considerata come l'aria che si respirava, come l'acqua. In una parola, era considerata irrinunciabile. Più o meno come viene considerato il lavoro, oggi!
Schiavitù antica. quando gli uomini portavano il collare - di Lidia Mazzolani Storoni
Come sarebbe inconcepibile oggi un mondo senza macchine, così lo era, per gli antichi, una società senza schiavi. Se fu ipotizzata, lo fu sul piano dell' utopia, uno schema immaginario proiettato nel passato mitico o nelle Isole Beate, dove la terra produce spontaneamente e le tigri vanno a dormire con gli agnelli; oppure, come scrisse Aristotele in vena di fantascienza, qualora macchine intelligenti potessero sostituire le braccia umane. L' abolizione della schiavitù non fu mai un programma politico da attuare nel futuro; non la proposero né demagoghi né idealisti. Stoici e cristiani riuscirono forse ad attenuare le condizioni degli schiavi, non a liberarli. La produzione agricola, industriale, artigianale fu opera loro. In Grecia, gli schiavi consentirono ai liberi di darsi alla politica, all' arte o alla speculazione filosofica; a Roma, di conquistare e difendere un impero. Il posto che essi occuparono, il loro peso economico come numero, prezzo, forza-lavoro, come merce umana, la loro coscienza di classe - se mai la ebbero -, le giustificazioni teoriche che furono fornite della loro esistenza rappresentano un campo d' indagine prediletto dalla storiografia marxista e sociologica.
In due opere recenti sono stati esaminati i problemi inerenti agli schiavi in Grecia (Yvon Garlan, Gli schiavi nella Grecia antica, dal mondo miceneo all' ellenismo, con prefazione di Domenico Musti, traduzione di Silvia Demichele, Mondadori, pagg. 179, lire 13.000) e a Roma (Keith Hopkins, Conquistatori e schiavi. Sociologia dell' impero romano a cura di Martino Menghi, Boringhieri, pagg. 230, lire 40.000).
In base ai dati ricavati dalla decifrazione delle tavolette d'argilla trovate a Cnosso e a Pilos, si direbbe che nell' età micenea - XIV-XI sec. a.C. - soltanto donne e fanciulli, destinatari di magre razioni alimentari, svolgessero determinati lavori alle dipendenze del palazzo: certamente catturati in guerra o in razzìe, non acquistati su mercati.
Quando si scende all'età omerica (VIII secolo a.C.), lo schiavo - prigioniero o comprato al prezzo di coppie di buoi - occupa certo il gradino più basso della scala sociale, se Achille, a Ulisse che lo incontra negli Inferi, dice che preferirebbe "esser bifolco, servire un padrone, anziché regnare sulle ombre esangui". Il trattamento degli schiavi nei poemi omerici appare spesso patriarcale; per Ulisse, la schiava Euriclea è una seconda madre. Ma egli non esita a impiccare alle travi del soffitto le ancelle infedeli.
Si conoscono rivolte di schiavi soffocate nel sangue, ma non si conosce il loro pensiero; la loro immagine, figurativa e letteraria, è convenzionale: l'hanno creata i signori. Hanno bassa statura e tratti volgari; la loro inferiorità fisica e spirituale costituisce una giustificazione per le condizioni in cui sono tenuti. Il servo, del resto, da Aristofane e Plauto fino a Molière, Marivaux, Goldoni, è invariabilmente sciocco, ladro, bugiardo: un furbastro, a volte dotato di astuzia e buon senso, ma sempre a fini utilitari. Il timor di Dio di Sganarello serve a sottolineare il cinismo di Don Giovanni. Bisogna arrivare al Figaro di Beaumarchais - alla vigilia della Rivoluzione - per trovare un servitore che ha la meglio sul padrone.
La schiavitù in Grecia fu un fenomeno urbano, incrementato dall'aumento della ricchezza e dall'esodo dei giovani verso le colonie della Magna Grecia. A Roma, il nome stesso indica l'origine: servus è chi è salvo. Gli è stato concesso di vivere da chi poteva sopprimerlo. Ha visto la devastazione del suo paese, il massacro dei suoi, oppure è stato sequestrato dai pirati e venduto nei mercati di Delos, Corinto, Cartagine, Ostia; è destinato alle miniere, alle fogne, alle fucine, ai remi; seguirà il legionario come attendente, ma non impugnerà le armi; dormirà con i compagni in dormitori detti "carceres". E se uno di loro uccide il padrone, subirà con gli altri la pena capitale: accadde nel 61 d.C., quando, per l' omicidio commesso da uno, ne furono giustiziati 400. Se morirà di fame o di sferzate, per il padrone il fatto non costituisce reato; non può aver figli, a meno che non sia d' accordo il padrone; se non lo è, espone il neonato; in una iscrizione funeraria di Cartagine, una schiava dice: "Sono libera ormai. Le pene sofferte, le lacrime tanto spesso versate le lascio al mio compagno. Poichè contro la volontà del padrone ho messo al mondo un bambino. Chi lo nutrirà ora, chi provvederà a lui per tutta la vita?".
Lo schiavo non aveva facoltà di sporgere denuncia contro il padrone; la sua testimonianza era valida solo se resa sotto tortura; portava un collare di ferro affinché, in caso di fuga, potesse esser ripreso. Tra i mille reperti chiusi al pubblico, appartenenti all' Antiquarium Comunale di Roma, c'è un collare sul quale è scritto: "Sono fuggito. Arrestami. Chi mi riporta al padrone Zonino riceverà una moneta d' oro". Gli schiavi che presero parte alle ripetute rivolte siciliane del II secolo a.C., e quelli che seguirono Spartaco furono crocifissi a migliaia. Tra le benemerenze registrate da Augusto nel suo Testamento c'è quella d'aver restituito ai proprietari 30.000 schiavi, fuggiti nei disordini delle guerre civili: "affinché subissero", dice con locuzione agghiacciante, "il supplizio".
L' afflusso di schiavi dai paesi vinti si calcola a milioni. Mario nel 105 catturò 90.000 Teutoni e 60.000 Cimbri, Cesare ne riportò dalle Gallie almeno 150.000, nel Mercato di Delos il giro d'affari era di 10.000 schiavi al giorno. Venivano adibiti, a seconda delle loro qualifiche, a lavori pesanti o a servizi domestici, anche culturali. La maggior parte di essi sostituì i coltivatori diretti o la manodopera salariata. Quali furono le ragioni di questo fenomeno? Hopkins le esamina attentamente. Al ritorno dalle campagne militari, i condottieri compensavano i legionari assegnando loro appezzamenti di terre espropriate. Anche Virgilio avrebbe dovuto lasciare "i dolci campi" dov'era nato, se Mecenate non avesse intuìto che quel giovane mantovano meritava d'esser discriminato. Ma i beneficiari di quelle assegnazioni, dopo anni trascorsi sotto le armi, non se la sentivano più di maneggiare la vanga e spesso preferivano vendere il poderetto e scialacquare il ricavato in città. Qui ingrossavano la massa degli spostati - braccianti disoccupati, vittime delle confische, figli di proscritti - spogliati d'ogni avere ed esclusi dai pubblici uffici, oberati tutti di debiti: gli emarginati che si associarono al golpe di Catilina. Cicerone li descrive come degenerati e criminali comuni, ma Sallustio, pur deplorandone gli intenti sovversivi, addita nella società iniqua e corrotta di Roma la matrice di quel cancro sociale e non disconosce le loro ragioni.
Osserva Hopkins che l'uso di manodopera servile, nella misura in cui fu applicato nell'impero romano, non ha riscontro in altri paesi pre-industriali: Roma non aveva, come l'America dei pionieri, territori sconfinati da dissodare e carenza di bracciantato locale. Nell'impero romano, gli schiavi subentrarono a lavoratori indigeni, su terreni abbandonati sia per la durata della ferma - una ventina d'anni - che sottraeva gli uomini alla terra, sia perché, da quando Mario aveva aperto ai proletari il mestiere delle armi, molti preferivano l'avventura in paesi lontani al lavoro dei campi; la città inoltre offriva distribuzioni di grano ai non abbienti (circa 300.000 capi-famiglia nel I secolo) e mille occasioni di profitto, spesso illecite. Per quale ragione gli schiavi furono preferiti ai salariati? Non, come sembrerebbe ovvio, perché non erano pagati. Con l' ausilio di raffronti, tabelle, statistiche, con un cauto uso di fonti (scarse) e di ipotesi (sensate), Hopkins dimostra che, contrariamente a quel che si crede, lo schiavo costava molto: non solo per il suo prezzo e il mantenimento, ma anche per la sorveglianza e per il rischio che morisse, dato il regime a cui era sottoposto; inoltre percepiva 33 kg. di grano e 20 sesterzi al mese. Il ricorso al lavoro servile diventò necessario quando le città si dilatarono, lo Stato assorbì prodotti alimentari in grandi quantità per le distribuzioni gratuite, e si crearono mercati urbani. La produzione agricola d'un tempo sopperiva ai bisogni d' una famiglia; ora che era destinata a un largo consumo, richiedeva squadre di lavoratori addestrati e prestazioni continuative. Hopkins ipotizza un altro motivo, un po' meno solido, per l'eliminazione dei lavoratori liberi: a Roma l'élite aveva interesse a estendere il dominio per le immense ricchezze che ricavava dalle province, ma preferiva che lo sfruttamento del proletariato ai propri fini avvenisse con l'esercito anziché con il lavoro; il proletario, a sua volta, era più disposto alla vita militare che a quella dei campi: oltre ai vantaggi materiali, lo induceva a quella scelta una propaganda martellante. Non ci sono mai state medaglie o trionfi per chi zappa la terra. Un altro connotato singolare dello schiavismo romano è quello delle mansioni di alta responsabilità spesso affidate a schiavi; i quali, una volta ottenuta la libertà, conservavano le leve del potere. E, secondo alcuni, il fatto che occupassero posti eminenti uomini privi di tradizione etnica e culturale fu una delle cause della disgregazione morale che caratterizza gli ultimi secoli: i liberti non avevano nulla in comune con i Fabii e i Metelli.
C'è poi un altro tratto insolito nel sistema schiavistico romano: la straordinaria frequenza della manumissio, la concessione della libertà. La pratica era così diffusa, che Augusto limitò a cento il numero degli schiavi che si potevano liberare nei testamenti. I romani erano dunque così umanitari? Tutt' altro: spesso lo schiavo, dopo una decina d' anni di servizio, era in grado di comprarsi la libertà. Ripagava il prezzo del suo acquisto, maggiorato dalla lunga prestazione, e così il proprietario era in grado di rimpiazzarlo con un altro schiavo più giovane. Ciò rendeva il rapporto tra i due una specie di contratto a termine: il che spiega la durata del sistema.
Dai documenti in nostro possesso, la durezza del regime appare comunque temperata da una diffusa solidarietà umana. Spesso il titolare d'un colombario destina i loculi ai liberti che gli sono rimasti legati fino alla fine e portano il suo nome, seguìto dalla lettera "L". In una lettera, Cicerone lamenta la morte d' uno schiavo; Seneca li definisce: "Schiavi? No, piuttosto umili amici"; Marziale raccomanda una piccola schiava morta ai suoi genitori, affinché l' accolgano nell'Aldilà (il tema ripreso da Carducci quando affida al fratello il bambino che aveva perduto: "O tu che dormi là su la fiorita / Collina tosca e ti sta il padre accanto..."). Parafrasando la formula d'uso nelle iscrizioni funerarie ("Ti sia lieve la terra") Marziale chiude il breve carme con un verso tenerissimo, che evoca la figuretta gracile della bambina: "E tu, terra, non pesare su lei. Non pesò ella su te...".
Lidia Mazzolani Storoni – da “la Repubblica", 14 settembre 1984