Schizo-intervista a Mister Macbeth
I° Contro-castroneria
- Mi dica, Mister Aldo Augieri, cosa l’ha spinta quest’anno a scegliere un’opera così stregata come il Macbeth? Si sente bene?
- Ahi dottore, mi fa male qui… Mai come quest’anno ho avuto tanta paura di non farcela, le previsioni erano apocalittiche, tutti mi ripetevano: “va tutto male, va sempre peggio”…nonostante ciò, lo ammetto, non ne avevo abbastanza e di questo me ne dispiacevo. Niente più mi sbigottiva, neanche le continue aggressioni verbali, ogni mattina, coi vicini di casa. Ho scelto così di fondermi e confondermi col Macbeth e la sua opera perversa – È un Macbeth che torna dalla guerra, eccitato, indiavolato nel vaneggio dell’autospavento, sino a sprofondare in un dialogo farneticante con tre streghe che lo confondono, se lo mescolano, gli incuneano nel cervello una canzonetta terrificante: “tu sarai di più di quello che sei…parapaponzipò” .
Strada facendo mi accorsi che in questo gioco le streghe si moltiplicavano, anch’io stregato, stregato il mondo e stregata la scena.
È vero le streghe mi garantivano un futuro roseo e sulla cresta dell’onda, successo e applausi non mi sarebbero mancati. Ma la vera promessa riguardava il potere. Il potere di far cosa? – chiedevo alle streghe – Non credevo certo che avrei preso il posto del Re di Scozia. Sulla scena invece ho conosciuto uno strano potere, molto affascinate, il potere di farneticare, il potere di credere a ciò che vedevo, anche se la nebbia era fitta, anche se non si vedeva una cicca. Cominciarono da subito a spuntare da tutti gli angoli gendarmi in gonnella, pronti a bacchettarmi, a ripetermi: “non si deve credere al farnetico, semmai credi a noi…parapapinzipinzipì”
Capisco. Ma è possibile creare in provincia, in pianura?
Ah dottore, in pianura siamo totalmente fritti, la sussistenza è garantita dal progetto , dall’eventuccio, dai workshop…e altre fesserie… mai una vecchietta per strada per parlare di ritmo e di intensità. Così, con due gocce di cianuro, confido nel mio unico Dio, il Dio-Ritmo.
In pianura non si crea, si soffre, si soffre così tanto che poi magari si comincia a fottersene, e magari con l’arrivo della stagione delle nebbie tutto diventa bianco, e su quel bianco si comincia a pedalare…A proposito cosa c’è per pranzo dottore?…
La fonte, la sorgente Shakespeare imponeva ritmi ordinati e ordinari, e soprattutto, attorialmente, ci si sentiva costretti a interpretare una storia già scritta, già conosciuta. Cosa fa sì che un attore viva la storia che sta scrivendo? Cosa vuol dire per un attore giocare all’ambizione di prendere il posto del Re? Avendo solo tre amici, due topi e uno scarafaggio, e parlando con loro, mi sono accorto che non mi interessava l’ambizione di prendere il posto, ma piuttosto l’ambizione di farmi-bolla, in un montaggio di bolle, bolle di sapone d’ovatta di saliva di gomma…
Mi scusi se la interrompo, ma a teatro ci vuole metodo, disciplina e compromessi… Lei invece parla di deliri e di deragliamenti…
Senta dottore, parliamoci chiaro…La scena è donna, ed io se vengo in cura da lei, vengo perché sono masochista. Ogni giorno mi presento a cospetto della scena pronto ad essere frustato, catapultato da un metro all’altro, so poco di quello che accadrà. Sì, è vero, di compromessi se ne fanno tanti, troppi. Lei lo sa? Lo sa che incontro ragazzi e fanciulle che dopo appena due mesi di prove sono già stati invitati al Festival del panzerotto? Così tanto per dire. È una sciagura mi creda dottore, è una sciagura. A me non mi invita mai nessuno, forse perché c’ho l’alito marcio?
E va bene, ma quand’è che Lei, da regista, gode?
Lo giuro, lo confesso, ho le mani pulite, neanche una goccia di grasso, neanche un bullone è stato mai avvitato da queste dita… Eppure la mia mente brulica di bulloni…di variazioni…di molecole ballerine…di gas…di motori. Quando si costruisce una macchina, si gode se la macchina corre, o quando si scrive una partitura testuale-musicale si gode se l’ascolto è persuasivo, ecco dottore, si gode quando la macchina fila. A teatro la macchina è una macchina desiderante.
Cosa le lascerà questo lungo lavoro sul Macbeth?
Nella costruzione di questo spettacolo, le parole ricorrenti erano tradimento, morte, sogni sospetti…; ho cominciato con l’insonnia e a sentire in ogni relazione l’ombra del doppio gioco. Tuttavia non volevo accontentarmi solo di questo, anche perché Shakespeare colora il negativo con mille sfaccettature e lascia buchi e varchi aperti a molteplici vie di fuga. Mi eccita come William si burli dell’attore, dell’interprete, come se ci chiedesse “vediamo se tu, mio brav’attore, sei così tonto da crederci…”. Questa è una grande lezione, Shakespeare odia il teatro, odia l’ attore, il critico e il commentatore, e ci conduce passo dopo passo in un grande cul de sac, e a noi non resta che recitare le sublimi battute delle sue tragedie. Senta dottore, la prego, non dormo da otto mesi non ce la faccio più, vedo alberi dappertutto, che devo fare?
L’albero è un simbolo occidentale, cresce in verticale, ben radicato alla terra. Perché mai ce l’ha tanto con gli alberi?
Sì, gli alberi sono radicati, lì dove spuntano lì rimangono, con le loro logiche binarie, al massimo concedono al passante una contorsione del tronco, una disperata tensione verso la luce. Da queste parti dove io bazzico, tutto è arborescente, è il delirio della radice! Io invece sogno, sogno qualcosa di frenetico, di picchiettante, di desiderante…di sradicante…una vasta steppa, semmai un deserto da popolare…ah dottore…ho sbadigliato, vede?…Questa mania di spiegarsi…è vero…fa venire sonno…
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