Sparatoria a Palazzo Chigi: l’intervista al figlio di Preiti e il giornalismo d’assalto
«Come stai oggi?», «Cosa vorresti dire a tuo papà?», «Nel vostro rapporto non cambia niente?», «Se ce l’avessi qua cosa gli diresti?», «Lo vedevi che era triste ultimamente?», «Com’era stata la vacanza insieme?», «Adesso devi stare vicino alla mamma. Era con te alla Comunione?», «Avevate un bel rapporto? Secondo te cosa gli ha detto la testa?».
Sono queste le “fondamentali” domande, indispensabili alla corretta ed esaustiva informazione dello spettatore, che dovevano essere poste a tutti i costi al figlio di Luigi Preiti, il responsabile della sparatoria avvenuta domenica davanti a Palazzo Chigi. Senza alcuna remora morale o semplicemente deontologica una turba di sciacalli si è avventata su un undicenne in uno stato psicofisico molto precario, al quale di sicuro in questo momento non serve affatto l’attenzione dei media né tantomeno un’immediata riconoscibilità mai cercata.
La condanna da parte del mondo del giornalismo è stata unanime e ferma, ricordando la presenza di un documento, la Carta di Treviso, che regola diritti e doveri dei professionisti dell’informazione nei confronti dell’infanzia. Giustamente è anche stato stigmatizzato un sensazionalismo del tutto inutile e contrario a qualsiasi sentimento umano di rispetto ed empatia.
Le parole più adatte a commentare il grave sopruso sono quelle scritte dal presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Enzo Iacopino: «”Ti voglio bene, papà!”. Per registrare questa dichiarazione “sorprendente” si piantona la casa di un ragazzo di 11 anni e lo si intervista, forse convinti di aver fatto uno scoop. Ne viene fuori, invece, solo un modo di fare informazione che sento estraneo al mio cuore ancor prima che alle regole elementari della professione».
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