L’espressione digital humanities viene solitamente tradotta come “informatica umanistica”. Secondo Eric Johnson, bibliotecario, le definizioni recenti di questa disciplina in verità non così nuova sono accomunate da una caratteristica: non hanno nulla a che vedere con l’informatica. Intendono infatti se stesse secondo principi così ampi e programmatici da rischiare di apparire retorici: collaborazione, spirito inclusivo, interdisciplinarità, acceso aperto, procedure aperte, codice aperto, coinvolgimento del pubblico e comunità di passione o di conoscenza.
Dietro le parole, però, c’è la scelta non retorica di superare il mondo dello studioso solitario e della pubblicazione riservata: le scienze umane aperte sono gli ambiti delle discipline umanistiche che si propongono di democratizzare la produzione e il consumo della ricerca.
Come illustrato nel diagramma qui sopra, le scienze umane aperte si possono rappresentare come un insieme che interseca la gran parte delle scienze umane pubbliche e dell’informatica umanistica: il codice e la cooperazione, qui, hanno finalmente un significato operativo e tecnico. A quanto suggerito da Eric Johnson, nell’intersezione fra l’insieme blu e l’insieme rosso, si possono aggiungere anche gli open data.
Buona parte del mondo accademico italiano continua a trattare il tema dell’apertura come irrilevante, perché legata ai mezzi e non ai fini che, machiavellicamente, brillano di luce propria. Ma per comprendere che il modo in cui si forma lo spazio pubblico – con barriere proprietarie o senza, con l’occupazione macrologica o con la conversazione – basta ricordare lo scontro durissimo fra Socrate e Protagora nel dialogo omonimo.
Socrate, già con molti ho fatto gare di discorsi e se mi fossi comportato come tu mi domandi, discutendo come mi chiedeva il mio contraddittore, non sarei apparso migliore di nessuno, né il nome di Protagora si sarebbe diffuso fra i Greci. (Protagora, 335a)
Questa non è una questione “da bibliotecari”. E’ una questione di potere.
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Il diagramma è una riduzione di quello di Eric Johnson in On a definition of “open humanities, che ho potuto leggere grazie a una segnalazione di Antonella De Robbio.