Pochi mesi fa il filosofo laico Raymond Tallis ha scritto un articolo interessante contro il biologismo: «Il mondo accademico è attualmente in preda a un’epidemia, uno strano e preoccupante biologismo, che ha anche catturato l’immaginazione popolare. Scienziati e filosofi credono che nulla di fondamentale separi l’umanità dall’animalità». Questo biologismo, secondo Tallis -uno che è membro della British Humanist Association e ha firmato nel 2010 una lettera aperta contro la visita di Benedetto XVI nel Regno Unito- si manifesta in due modi: «uno è l’affermazione che la mente è il cervello o l’attività del cervello», l’altro è «l’affermazione che il darwinismo spiega non solo come l’organismo dell’Homo sapiens sia nato, ma anche ciò che motiva il comportamento delle persone giorno per giorno», ovvero il riduzionismo genetico.
Tallis indica nuovi studi e nuovi libri che sempre più contrastano queste visioni neopositiviste, chiedendosi se queste pubblicazioni siano «un indicatore del fatto che questo potente edificio filosofico stia iniziando a cadere a pezzi?», ci aspetta «un futuro migliore in cui il compito di cercare di dare un senso a ciò che siamo non venga ostacolato da uno scientismo riduttivo che ci identifica con l’attività del cervello evolutosi per servire il successo evolutivo? Spero di sì». Chiude poi ovviamente da laico: «Anche se non siamo angeli caduti dal cielo, non siamo solo macchine neurali. Né siamo meramente scimpanzé eccezionalmente intelligenti».
Come spiegava Francesco Agnoli qualche tempo fa su questo sito, c’è un chiaro progetto anti-teista che «non si rassegna a negare Dio», ma vuole «ridurre l’uomo ad un elemento della natura, equivalente ad un sasso o un albero; ridurlo via via a frutto del Caso, a un “esito inatteso”, a una “eccezionale fatalità”, a un aggregato di materia senz’anima, a un meccanismo geneticamente determinato». Negare Dio ha sempre significato negare l’uomo e la sua unicità: ecco che i neodarwinisti, strumentalizzando il darwinismo, lo hanno quindi tentato di livellare alla scimmia, informando che il nostro patrimonio genetico è condiviso al 99% con lo scimpanzé, ma evitando di dire che per l’80% è in comune con un verme di 1 mm (Caenorhabditis elegans), il 50% è condiviso invece con il dna della banana, e abbiamo lo stesso numero di geni della gallina. Secondo i riduzionisti, dunque, saremmo per l’80% dei vermi e per il 50% delle banane.
Vale la pena comunque notare i risultati di studi in cui gli scimpanzé vengono confrontati con i bambini, come ad esempio quello appena pubblicato circa la cultura cumulativa: i ricercatori hanno addestrato scimpanzé a risolvere dei puzzle e poi a dimostrare le tecniche ad altri scimpanzé. Ma essi non hanno imparato, al contrario di un gruppo di bambini della scuola materna. Affermano: «Gli scimpanzé possono imparare gli uni dagli altri, ma la loro conoscenza non sembra accumularsi e diventare più complessa nel corso del tempo», e questa è una «caratteristica degli esseri umani, che ha dato luogo a realizzazioni come i computer e la medicina moderna». Concludono basiti gli studiosi: «Le differenze tra gli esseri umani e le altre specie sono in realtà più forti di quanto avessimo immaginato prima di avviare questo test». Caspita, ci volevano proprio degli scienziati per fare questa incredibile deduzione! Chi lo dice ora a Telmo Pievani che è stato messo un altro tassello per l’emancipazione dell’uomo dalla scimmia?