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Donatella Luca, in risposta al mio post Contro. Per passione mi motiva a scrivere due pensieri in relazione alla mattanza commessa dal sergente maggiore americano in Afghanistan e a quella di cui è stato autore Mohammed Merah, cittadino francese di origini algerine. Approfondiremo nei prossimi giorni l'argomento, perché serve tempo per concatenare pensieri e parole. Questa sera ne ho poco. Pensiero numero uno: è un esercizio interessante paragonare gli articoli dedicati al caso afgano e quelli scritti in copertura del caso francese. Nei primi (Afghanistan) è evidente il tentativo di descrivere l'autore degli omicidi come un soggetto vittima di una situazione dentro la quale è venuto a trovarsi (troppi turni in zone di guerra, troppo stress, follia). Nel caso francese il linguaggio (sui giornali ma anche nei media elettronici) non cerca giustificazioni socio-psicologiche: va dritto al nocciolo religioso e culturale (addirittura, velatamente, di civiltà) della questione. Il racconto del passato difficile del ragazzo trascorre in secondo piano di fronte al presunto indottrinamento qaedista in Francia e, successivamente, in Pakistan e Afghanistan. Il soldato americano ha ucciso (molte più' persone, fra l'altro, prima di essere fermato) perché era stressato, il giovane francese di religione musulmana ha ucciso perché era esaltato. La descrizione, di per sé, non fa una grinza. E' una descrizione ed è una giustificazione plausibile. Ma quanto sbilanciate e quanto di parte entrambe dal punto di vista della metodologia giornalistica, di una epistemologia della conoscenza e della ricerca. Altri pensieri: il ruolo di chi ricerca la verità o, in termini più' modesti, di chi ambisce ad avvicinarsi il più' possibile a una credibile (ma soprattutto onesta) versione della verità (o della REALTA') deve pero' essere diverso. Nel caso del sergente americano non dovremmo escludere a priori il fanatismo, l'indottrinamento, l'esaltazione, la matrice religiosa. Poi, magari, giungeremmo ad escluderla, ma dovrebbero (devono) questa domanda e questo intento di ricerca costituire un punto focale dell'approccio giornalistico. Per il giovane francese di origini arabe vale la stessa cosa: dovremmo chiederci se non sia forse l'assenza documentata di un padre, lo sbandamento sociale, l'esclusione, il senso di insufficienza e di fragilità, oppure un desiderio interpretato (e manipolato da terzi, di fronte a questa predisposizione) in modo inaccettabile di rifiutare lo status quo di un'ingerenza occidentale in alcuni paesi di fede e di cultura musulmana. Per poi magari escludere, anche in questo caso, tale pista. Il fatto che l'americano sia un soldato (che vesta una divisa) lo sottrae a un giudizio che invece giornali e media elettronici riservano, con predilezione, al caso francese. Un civile che imbraccia le armi e spara su altri soldati e su un gruppo di studenti di religione ebraica innocenti e inermi non beneficia di questa flessibilità del pensiero, di questa disponibilità ermeneutica. O attenuante del pensiero. Che è quindi una falsatura del pensiero. Entrambi gli atteggiamenti sono sbagliati: l'attenuante aprioristica e la precipitazione del giudizio semantico (terrorista). Entrambe le azioni sono (per motivi diversi ma interconnessi) devianti. Dovremmo, inoltre, riservare alle vittime la stessa attenzione mediatica, iconografica: a quelle francesi e a quelle afgane. Le immagini di quelle francesi hanno fatto il giro del mondo, quelle afgane non le ha viste (se non per poco tempo) nessuno. E per quanto si siano viste, la nostra (generalizzo) reazione è stata a dir poco blanda. Dovremmo chiederci allora anche questo. Chiederci perché abbiamo (generalizzo, ancora) reagito così, perché siamo mossi da una gerarchia della partecipazione, della commozione, del pathos e non da ultimo dell'ethos. E' pericoloso scrivere quello che scrivo, a undici anni da 9/11 e conto tenuto dello stato non proprio esaltante nel quale versano la stampa e le democrazie occidentali: eppure sono convinto che vada scritto. Perché, vedete, è un po' come se uno scienziato, di fronte a una imminente e importante scoperta, si rifiutasse di entrare nel profondo di quella cellula che gli spianerebbe la strada verso la svolta. Il giornalismo non funziona, non può' funzionare così'. Dobbiamo, noi giornalisti, desiderare lo scavo, la ricerca delle cause, senza preconcetti e soprattutto senza utilizzare un vocabolario dettato dai poteri forti. Un vocabolario che ci fa chiamare pazzi i soldati americani assassini e terroristi i giovani francesi assassini di origine musulmana. Sono assassini entrambi. Su questo non c 'è dubbio e credo non valga più' la pena parlarne, siamo socraticamente d'accordo sulla definizione di base dell'argomento di cui stiamo discutendo. L'utilizzo aprioristico di vocaboli diversi dettati da uno stesso vocabolario ci impedisce pero' di fare il nostro mestiere di giornalisti fino in fondo e soprattutto di capire la realtà. E se non capiamo la realtà non potremo mai cambiarla. Da giornalista io rivendico il diritto, espresso in totale libertà, di capire i motivi per i quali il soldato americano di origini cristiane ha aperto il fuoco (da solo?) contro 16 civili afgani inermi (musulmani). E rivendico, con altrettanta determinazione, il diritto, espresso in totale libertà, a capire le motivazioni che hanno spinto il giovane francese di origini musulmane a uccidere (musulmani e ebrei). La ricerca della verità è un esercizio di indipendenza. Soltanto se compiuto fino in fondo, senza condizionamenti (o evitando il più possibile i condizionamenti) questo esercizio ci renderà anche davvero liberi. E quindi capaci di cambiare le cose. Di evitare forse che i soldati americani uccidano di nuovo civili afgani (per parlare soltanto di questi). E di evitare forse che un giovane francese di origini musulmane imbracci di nuovo le armi perché ha deciso (o qualcuno gli ha fatto decidere) che così e soltanto così ha un ruolo da svolgere nella vita. Domande scomode, risposte scomode, che portano fuori equilibrio la bilancia dei partiti presi, degli accecamenti del buono contro il cattivo, dello scontro di religioni e di civiltà, di loro (i musulmani) contro di noi (i cristiani), del male che non siamo mai noi a compiere (noi occidentali reagiamo sempre e soltanto alle minacce) e del bene che loro (i musulmani) per un motivo inspiegabile sembrano incapaci di compiere, dell'indottrinamento che esiste soltanto da loro (i musulmani) e mai da noi (i cristiani d'Occidente). Soltanto la sensazione netta della realtà fuori squadra consente di ricostruirla da zero senza preconcetti. Per capirla davvero. E per cambiarla. Se non chiedo troppo. Nel rispetto più partecipato al destino tragico delle vittime e al dolore dei familiari.Magazine Società
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