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scomodando gente grossa

Creato il 28 giugno 2011 da Gaia

Ho esitato a lungo prima di scrivere questo post, rendendomi conto che si chiedono pareri sul processo di creazione artistica agli artisti affermati, non ai pivelli, e che poteva apparire un po’ ridicola una mia dissertazione sul come scrivo e perché. Poi ho pensato che non mi interessa del ridicolo, perché ho spunti che vorrei condividere.

Prima. Le storie che ho messo nel libro, come sempre, sono storie che ho vissuto o sentito, ma abbiamo tutti sentito tante storie, questo non è un sufficiente motivo per scriverle. Non so come lavorino gli altri, ma io non concepisco l’idea di “cercare” storie da raccontare. Se devo ridurmi così, piuttosto non scrivo niente. Dopo un primo libro non pensavo che ne avrei fatto un altro, poi però mi è venuta un’esigenza. Mi sono trovata ad un certo punto completamente immersa in una saga scritta genialmente, al punto che la mia vita era in sospeso perché dovevo leggere, che i personaggi del libro erano più reali quasi di quelli che incontravo nel mondo vero, eccetera. Penso che tutti più o meno abbiano provato la sospensione dell’incredulità e l’immersione in una storia che appassiona, ma io questa volta sono proprio rimasta sconvolta dalla forza di tale esperienza. È una saga molto popolare quella di cui sto parlando, e io ho iniziato a riflettere sul potere che l’immaginazione di un singolo autore, di un uomo da solo, ha non solo sulla mia mente, ma anche sulla mente delle persone che come me si erano appassionate ai suoi libri. Non solo: lui si era ispirato alla Storia con la maiuscola, nello scrivere, l’aveva rimescolata creando una storia, con la minuscola, sua, che poi aveva catturato l’immaginazione di milioni di persone rendendola forse più reale di ciò che veramente è accaduto nei secoli passati. I suoi libri sono diventati una serie televisiva, e qui sono iniziate le dispute su quanto fosse stata rispettata la storia originaria (che comunque era finta sin dal principio), o addirittura i suoi richiami alla Storia europea, e io ero sbalordita da questo continuo rimbalzare tra finzione e realtà, dall’importanza dell’una nel dare forza all’altra (non durano molto i personaggi irrealistici e improbabili, e questa saga di cui vi parlo illumina la storia europea più di tanti libri accademici), dalla potenza dell’immaginazione individuale e collettiva, e dal fatto che persone intelligenti e adulte potessero essere così completamente assorbite, scosse, dilaniate da qualcosa che sanno essere finto, come la morte di un personaggio che non esiste, come una guerra che non c’è mai stata.

Io volevo scrivere un libro su questo, su realtà e fantasia, sulla narrazione per illuminare una realtà o per sfuggirle, ma non potevo farlo semplicemente così: ‘personaggio inventa storia immaginaria di evasione’, sarebbe stato banale e poco efficace. Probabilmente se leggerete quello che ho scritto io nel mio romanzo faticherete ad accorgervi che l’ispirazione iniziale sia stata l’esperienza di cui sopra.

Durante. Come al solito, Nietzsche l’ha già detto e l’ha detto meglio. Questo passaggio de La nascita della tragedia mi ha sconvolta.

… niente può essere più evidente del fatto che il poeta è poeta solo quando si veda circondato da figure che vivono e operano davanti a lui, e di cui egli scorge l’intima essenza. Per una peculiare debolezza propria del talento moderno, noi incliniamo a rappresentarci il fenomeno estetico originario in modo troppo astratto e complicato. La metafora non è per il vero poeta una figura retorica, bensì un’immagine sostitutiva che gli si presenta concretamente al posto di un concetto. Il carattere non è per lui qualcosa di simile a un tutto composto da singoli tratti cercati qua e là e riuniti, bensì una persona insistentemente viva davanti ai suoi occhi, che si differenzia dalla stessa visione del pittore solo per il suo continuo vivere ed operare. Perché Omero descrive con maggior rilievo di tutti gli altri poeti? Perché guarda e intuisce molto di più. Noi parliamo così astrattamente della poesia perché siamo tutti soliti essere dei cattivi poeti. In fondo il fenomeno estetico è semplice; si abbia solo la capacità di vedere ininterrottamente un vivo gioco e di vivere attorniati da schiere di spiriti, allora si è poeti; si senta solo l’impulso a trasformare se stessi e di parlare trasfusi in altri corpi e anime, e si è allora drammaturghi.

Dopo. Devi promuovere, mi dicono tutti, con un’insistenza che mi fa venire angoscia e mal di testa. Non me ne frega niente di promuovere il libro, sono convinta di quello che ho scritto, penso che se è bello la gente se lo passerà e se non è bello (però lo è!) allora ne devo scrivere uno più bello.

Ho scoperto una cosa curiosa l’altro giorno, e cioè che Tolstoj detestava Shakespeare al punto da scrivere un saggio contro di lui, sperando forse di demolirlo per sempre. Orwell tirò fuori questo saggio di Tolstoj e ci costruì sopra un altro testo, molto interessante, sull’arte e sulla morale. La combinazione di questi tre è così bizzarra che per un attimo pensai ci fosse un errore. Invece il suddetto saggio esiste, ed è disponibile online, ovviamente. È molto interessante, ma ai fini del mio post citerò solo questa frase qui:

“Ultimately there is no test of literary merit except survival, which is itself an index to majority opinion” (alla fin fine non c’è nessuna prova di merito letterario tranne la sopravvivenza, indicante essa stessa l’opinione della maggioranza)

Credere questo forse può somigliare a un atto di fede, perché la gente si sbaglia in massa e a lungo, eppure io penso che non ci sia nessun interesse, dopo qualche generazione, a tramandare un’opera se non se lo merita (a differenza di una menzogna storica o di una fede religiosa). Fidandomi degli altri, anche se a ben vedere sbagliano così spesso, io tendo a leggere quasi solo classici e libri consigliati, e fare lo stesso con i film; fidandomi degli altri, cerco di non imporre quello che scrivo.


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