Nel romanzo Rosso Istanbul di Ferzan Ozpetek uscito lo scorso novembre ed edito da Mondadori, due diverse immagini della città di Istanbul e le vite dei due personaggi principali sembrano scorrere parallele ma vicine: la protagonista femminile, Anna, va alla scoperta della città attraverso i luoghi turistici, e poi vi è l’altra Istanbul, quella del protagonista maschile, il cui sguardo vuole rievocare i momenti della sua infanzia e della sua giovinezza, quando ancora non si era trasferito a Roma e non era un regista di successo; una storia nella storia, perché questo regista è proprio Ferzan Ozpetek che si cala in una vicenda di fantasia, rivelando riflessioni e ricordi con un tono quasi di nostalgia per un passato che non può più tornare; sensazioni che appartengono a Istanbul, come l’autore ricorda, «la città della malinconia, anzi dell’hűzűn, quel sentimento a metà fra la tristezza e la nostalgia». Quella città che per lui a volte ha i colori di una vecchia cartolina in bianco e nero, il segnalibro di suo padre ormai scomparso, che continua a portare ovunque con sé: «Da allora è nel mio portafogli. Non è solo un ricordo. È un invito, una promessa. Perché ovunque io sia, Istanbul mi aspetta». E Istanbul ha anche i colori amati da sua madre: «il blu e rosso, che paiono riuscire a fondersi solo in certi tramonti sul Bosforo. E il rosso, il rosso dei carrettini dei venditori ambulanti di simit: le ciambelle calde ricoperte di sesamo che sono la prima cosa che compro quando arrivo. Il rosso fiammante dei vecchi tram: oggi ne è rimasto solo uno, con cui i turisti attraversano il cuore della città. Il rosso-arancio con cui erano decorati i piattini del tè che una volta ti porgevano nei kahve: tè bollente servito nei bicchieri di vetro». I due protagonisti guardano la stessa città, si soffermano sugli stessi luoghi, ma è “proustianamente” il loro sguardo a rendere la città diversa. Le storie scorrono in parallelo, i capitoli alternano le due voci, in terza persona la storia di Anna, in prima persona il racconto del regista. Gli eventi li faranno incontrare ma solo quando anche Anna avrà conosciuto l’altro volto di Istanbul. E così che questo primo lavoro letterario di Ferzan Ozpetek diventa soprattutto un omaggio alla sua città natale, regalandoci attente descrizioni, rievocando la vita di alcuni posti che sembrano destinati a scomparire per sempre: «la stazione di Haydarpaşa, un capolavoro di architettura che si specchia nel Mar di Marmara: così bella che adesso vogliono trasformarla in un hotel di lusso. È lì, sulla riva del mare, già dalla fine dell’Ottocento: treni e acqua, binari e cielo, e i ferry che portano i passeggeri. […] Da qui partivano i treni per Baghdad, per Damasco e Aleppo, quando ancora questa città non evocavano bombe e guerre, erano solo destinazioni di un Oriente vicinissimo»; qualche pagina dopo la memoria torna al primo cinema: «Emek Sinemasi è la prima sala cinematografica dove sono entrato in vita mia, dove ho capito che cosa sia, che cosa possa essere, fare cinema, vivere nel cinema. Il cinema-teatro costruito negli anni Trenta, un gioiello della Turchia di Atatűrk, ma anche gioiello dell’Art Déco: il parterre con le poltroncine di velluto rosso, e poi i palchi, le luci diffuse…E adesso lo vogliono demolire». L’incontro fra i due personaggi si presagisce sin dalle prima pagine: nel viaggio in volo da Roma a Istanbul Anna ha raccolto la cartolina in bianco e nero del regista, caduta a terra. Si conosceranno e si parleranno solo al termine del libro quando alcune vicende hanno stravolto la vita regolare e dominata di lei e lui ha fatto definitivamente i conti con il suo passato e la sua Istanbul. Si parleranno e lui sarà pronto ad aiutarla: «Perché a volte non serve partire, fuggire. Il vero altrove, spesso, è dove già siamo, e possiamo trovarlo solo se abbiamo la forza di affrontarlo. Muoversi da fermi, accettando la realtà. E solo così cambiarla. Muoversi da fermi, o fare le valigie per il mondo».
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