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Best seller e strategia di successo
Tutto è iniziato con una telefonata serale.Ero alle prese con una succosa galletta senza lievito, cercando di caricare sul suo fragile dorso prosciutto toscano, formaggio non formaggio (ossia a base di fumosi composti alla soia), pomodoro a tocchetti e alcune foglie di songino, quando il telefono cominciò a squillare. Ho un rapporto strano con il telefono, ossia strano se confrontato con l’italiano medio, che sembra incapace di staccarsene. Non lo amo. Non amo rimanere bloccato in telefonate incentrate sullo scambio reciproco di nevrosi, senza che nessuno dei due contendenti possa raggiungere il suo reale obiettivo: farsi ascoltare.Cercai quindi di comportarmi come il mio cervello imponeva. Lasciarlo suonare fino a che la controparte avesse smesso. Qualcosa però mi spinse a rispondere, forse la mia galletta che, nel frattempo, era crollata rovinosamente nel piatto. La voce, consapevole della mia avversione al mezzo telefonico, fu gioiosamente sintetica: “Vai su La7. C’è Lilli Gruber che intervista due scrittori di best seller, potrebbe essere interessante per te.”Si che lo era. Forse troppo. La casta degli scrittori non di best seller, tra cui timidamente mi ricomprendo, è comunemente dilaniata da un atavico sentimento d’invidia per i suddetti.
Possono allora aprirsi due strade:
1. lo sdegno e il rifiuto. La più comune: “non voglio sapere come ha fatto e comunque ci sarà di mezzo una raccomandazione. Chissà chi conosce e di chi è figlio.” Affermazione che spesso, purtroppo, corrisponde a verità;2. la curiosità depressiva. Lo scrittore non di best seller non potrà fare a meno di ascoltare l’intervista di uno scrittore di best seller, cercando di captare il ben che minimo suggerimento da applicare al suo lavoro. Pur conscio che se vi fosse davvero un segreto per scrivere dei best seller nessuno lo rivelerebbe. Tale curiosità è di tipo “depressivo” poiché, a fine intervista, sfocia inesorabilmente in confronto, autoanalisi e creazione di apocalittici scenari futuri, in cui tutti gli amici dello scrittore non di best seller sono divenuti scrittori affermati, tutti, tranne lo scrittore stesso.
Nel mio caso scelsi come al solito la seconda possibilità e mi sintonizzai su La7.Gli ospiti erano Gianrico Carofiglio e Amélie Nothomb. La prima cosa che pensai fu che non avevo letto i loro libri. La seconda che avrei dovuto farlo. La terza che forse avrei dovuto prima sentire cosa dicevano. La quarta che, in ogni caso, avrei dovuto leggere i cosiddetti best seller, non tanto come atto di piacere, ma come processo di documentazione e studio di un prodotto commerciale di nome libro. La quinta cosa che pensai fu che era molto triste considerare un libro come un prodotto commerciale. Nel frattempo l’intervista scorreva e il mio cervello, abituato a registrare gli avvenimenti esterni mentre sono preso dalle mie dissertazioni silenziose, prendeva appunti. La Nothomb appariva eterea, sicura di sé e vogliosa di impressionare. Carofiglio, concreto, acuto e amabilmente confidente nella sua padronanza linguistica. Li ascoltai parlare della loro routine scrittoria. Un impegno continuativo e massiccio per la Nothomb, che diceva di scrivere ogni giorno per almeno sei ore senza interruzioni, concentrando il suo impegno nelle ore notturne. Concitato e costantemente interrotto dalla “vita” invece l’impegno scrittorio per Carofiglio, che dichiarava di non poter scrivere in maniera continuativa per più di mezz’ora. La Nothomb si dilettava a stupire la Gruber, aggirando le sue domande e dichiarandosi una grande scrittrice, forse la più grande fra le viventi. Carofiglio, dissimulando stupore per le parole della “collega”, enunciava la sua ricetta per scrivere un buon best seller: “Non ci sono ricette”.Risultato?
Ho comprato un libro di Carofiglio. DOVEVO CAPIRE. Avevo scelto lui per vari motivi:
1. era italiano e quindi leggendo il suo testo si potevano intuire i temi, le trame e i personaggi che possono più interessare ai lettori italiani;2. scriveva principalmente storie cosiddette noir, quindi molto lontane dal mio genere e per questo più interessanti da analizzare e interiorizzare;3. (la più importante) pensavo di non riuscire (poi ovviamente l’ho fatto) a comprare un libro di un’egocentrica talmente disinibita da dichiarare il suo senso di superiorità senza alcun filtro. Non poteva fare come tutti gli altri e camuffarlo?
Comprai e lessi in pochi giorni: “Il passato è una terra straniera”, vero e proprio exploit di Carofiglio, tradotto in molte lingue, vincitore del premio Bancarella nel 2005 e base per un film di Daniele Vicari nel 2008. Scrittura limpida, con un retrogusto autobiografico, Carofiglio porta il lettore nel ventre molle della sua Bari alle soglie del passaggio di Giorgio (uno dei protagonisti) all’età adulta. Immedesimazione. Forse questa è una delle chiavi di Carofiglio. Era facile riuscire ad immedesimarsi con uno dei suoi due protagonisti, in Giorgio e Francesco vengono rinchiuse e consumate tutte le pulsioni di un fra poco adulto. Quando ebbi finito il libro, fissai a lungo la copertina, un abile cofanetto di book marketing dal sapore retrò della BUR, più spesso del normale, per far percepire valore al contatto e morbido, ripiegabile, maltrattabile. Forse per renderlo vissuto quanto il testo?La mia mente galleggiava in un brodo di interrogativi melmosi e non aveva ancora una risposta. Confuso, posai il libro dalla copertina affabulatrice ai piedi del letto. Non avevo la soluzione. Non so cosa renda un best seller tale. Forse solo un po’ di fortuna. Forse la rete di conoscenze dell’autore. Forse la sua casa editrice, l’agente, una costante caparbietà nel non mollare da parte dell’autore. Forse.
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