Il Corriere della Sera qualche tempo fa lanciò un gioco, il titolo era Un romanzo in sei parole. Il gioco consisteva nel condensare la trama e il senso di un romanzo famoso, appunto, in sei parole. In tempi in cui la comunicazione stabilisce limiti precisi in termini di battute, il gioco possedeva un suo fascino discreto. Assomigliava a una specie di operazione al cuore dei romanzi più amati dai lettori di ogni tempo, un’operazione che si riprometteva di estrarre dal corpo originale del racconto una goccia, un’unica goccia di sangue purissimo, dalla quale risalire all’identità cromosomica letteraria. O almeno io così l’ho interpretata. Ma c’è anche una possibile lettura del gioco in termini di economia delle parole, vale a dire, in tempi come questi, in cui viviamo sotto profluvi di comunicazioni, risparmiare parole, cercare solamente quelle fondamentali, può essere un esercizio assai interessante. Il gioco insomma è a ben vedere una cosa abbastanza seria. In termini strettamente letterari si tratta di una pratica fondamentale a cui ogni scrittore, a mio avviso, dovrebbe dedicarsi. Se è vero che la scrittura è un’arte “per via di levare”, uno come me, andato a lezione di scrittura sui libri di Calvino, non potrà che citare un passaggio dalle Lezioni americane, un estratto dalla Rapidità in cui si legge: “Sono convinto che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia; in entrambi i casi è ricerca d’un’espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile”. Per concludere, quello che per me è un esempio eccellente di interpretazione del gioco. Chiamati a condensare in sei parole il genio di Melville, un lettore del Corriere, tale albe1979, ha riassunto Moby Dick in questo modo: “La bianca folle ira di Achab”.
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