Il 13 aprile 1975, nel quartiere beirutino di Ayn al-Roummaneh, veniva fatto saltare in aria un autobus che trasportava 26 passeggeri palestinesi: questo atto terroristico dava il via alla guerra civile libanese, che durò circa 15 anni, fece più di 200mila morti, provocò il collasso di un paese e di un intero sistema sociale, economico e culturale, la scomparsa di circa 17mila persone, l’emigrazione di migliaia di altri e si concluse nel 1989-90 con gli accordi di Ta’if. È da allora che tutto il Libano continua a fare i conti con un passato che non si è mai davvero chiuso.
“Gramsci afferma che la storia è scritta dai vincitori, ma nel caso libanese la conclusione formale della guerra vede sconfitte tutte le parti in causa: chi può dunque assumersi il compito di scriverla?”
ha detto Elias Khoury. Probabilmente solo la letteratura.
Uno dei primi romanzi libanesi che lessi all’università e che mi rimase più impresso fu L’uomo che arava le acque, di Hoda Barakat. La mia professoressa di letteratura araba di allora ce lo aveva messo in programma e, mentre ne discutevano in seduta d’esame, ne diede una lettura critica che da ignara studentessa non avevo colto, ma che dava molto più senso e profondità all’opera. Non l’avevo colta perchè ero stata completamente irretita dalla bellezza del romanzo come opera letteraria in sè, dalla trama suggestiva e dalla magia delle immagini evocate dall’autrice. Merito senza dubbio anche della traduzione assolutamente impeccabile a firma di Samuela Pagani.
Eppure quel romanzo, come tanti altri romanzi libanesi contemporanei, oltre a regalare un fortissimo piacere mentre li si legge, fornisce una chiave di lettura importantissima della guerra civile libanese, della società e della storia del Libano recente.
Le trame e le strutture di questi romanzi riproducono il caos che ha travolto il Libano tentando di ricostuire quando accaduto, di restituire la memoria storica ad un presente afasico, di riabilitare le storie delle troppe vittime dimenticate di una guerra fratricida e, soprattutto, sono il migliore e più resistente antidoto all’oblio e alla morte.
Beirut, 1900 (fonte: Old Beirut, Facebook)Nel corso del convegno “Libano oggi” organizzato a Venezia nel 2007 (i cui atti sono contenuti qui), Elias Khoury, il più importante scrittore libanese contemporaneo, ha analizzato molto lucidamente la genesi e la struttura del romanzo libanese.
Secondo Khoury infatti, il romanzo libanese contemporaneo nasce proprio con la guerra e con la necessità degli autori di capire quanto stava accadendo. Ne sono nati libri diversissimi tra loro per stili e trame ma attraversati da un fil rouge in comune: il tentativo impellente di scrivere il presente per non dimenticare. Il romanzo è diventato memoria, “nato per inscrivere il presente nel presente, decostruendolo e ricostruendolo” in un paese che dopo 15 anni di guerra è stato ghermito da un’élite di affaristi, politici e imprenditori che hanno rimosso la memoria della guerra, costruendo un presente e un futuro basati sull’oblio e sul nulla.
Fortunatamente per noi, molti romanzi libanesi sono stati tradotti in italiano.
Tradotti dall’arabo
Cominciamo dai romanzi di Khoury: Il viaggio del piccolo Gandhi (trad. di E. Bartuli, Jouvence 2001) che ha presentato al lettore italiano la particolarissima struttura narrativa dei romanzi di Khoury. Che vanno a ritroso, e poi in avanti. Accennano una storia, ne danno il contorno e poi l’autore passa a raccontare altre storie, per poi riacciuffare le vite dei primi personaggi nuovamente. Il piccolo Gandhi altri non è che uno dei tanti libanesi che nella guerra civile cercavano di tirare avanti e di sopravvivere vivendo. La sua morte è la morte dell’uomo qualunque: il corpo sepolto da cumuli di giornali, i parenti scomparsi, della sua morte solo in pochi piangeranno.
E poi ancora, c’è la crudeltà e le violenze raccontate nel terribile Yalo (trad. di E. Bartuli, Einaudi 2009), e in Facce bianche (trad. di E. Bartuli, Einaudi 2007), romanzi in cui, sembra dirci l’autore, uccidere è diventata una faccenda talmente ordinaria durante la guerra che la gente si è oramai assuefatta all’indicibile, alla morte stessa. Anche in Facce bianche (il bianco e la scomparsa dei lineamenti dei volti ricorrono spesso nei libri di Khoury) onirico e inquietante, le storie di ordinaria follia quotidiana si inseguono e s’intrecciano, facendo perdere nuovamente di importanza la storia della morte di un uomo qualunque.
Il recente Specchi rotti (trad. di E. Bartuli, Feltrinelli 2009) contiene alcune delle cifre stilistiche ricorrenti del romanzo libanese: la moltiplicazione dei personaggi, che si rifraggono proprio come in un gioco di specchi, la pluralità delle storie e dei punti di vista, il continuo andare e tornare attraversando la categoria del tempo.
La follia e la dimensione onirica ritornano in L’uomo che arave le acque (trad. di S. Pagani, Ponte alle Grazie 2003) e in Malati d’amore (trad. di S. Pagani, Jouvence 1997) di Hoda Barakat, autrice libanese che risiede in Francia.
Nei romanzi libanesi Beirut sembra un cimitero di anime perse, che vagano indolenti da una parte all’altra della città, in bilico tra follia e sogno. La città è invasa da cani randagi in L’uomo che arave le acque e ne Il viaggio del piccolo Gandhi. Mentre sono i ratti che fuoriescono da ogni buco in Ya Salam! (trad. di S. Lo Surdo, Epochè 2007) di Najwa Barakat: un piccolo romanzo che è un inno alla follia, al tragicomico, al grottesco della società libanese uscita dalla guerra.
Le storie al femminile sono raccontate da Iman Humaydan in Donne di Beirut (trad. di M. Ruocco, Edizioni La Linea 2011) e da Hanan al-Shaykh in Mio signore, mio carnefice (diffidate del titolo italiano: quello originale era “Hikayat Zahra”, cioè “Storia di Zahra”; la trad. italiana è a cura di A. Hassan e S. Tolino, Piemme 2011).
Jabbour al-Douaihy invece in Pioggia di giugno (trad. di E. Bartuli, Feltrinelli 2010) ritorna al Libano del 1957 e ad un terribile fatto di sangue che sconvolse gli equilibri di una piccola comunità montan: questo evento, anch’esso raccontato da più punti di vista e a cavallo del tempo, diventa archetipo e profezia della guerra che si scatenerà due decenni più tardi.
Indaga ancora la follia del comunitarismo libanese nel successivo e dolcissimo San Giorgio guardava altrove (trad. di E. Bartuli con H. Bahri, Feltrinelli 2012), dove la storia tragicomica di un giovane nato sunnita ma cresciuto come un maronita nel Libano pre-1975 è l’emblema della follia di una società che aveva in sè gli anticorpi per vivere in comunione gli uni con gli altri, ma ha preferito far prevalere le differenze sulla dinamica pacifica del vivere insieme.
In traduzione dall’inglese invece potete leggere i romanzi: Come la rabbia al vento, di Rawi Hage (trad. di S. Lauzi, Garzanti 2008) e La traduttrice, di Rabih Alameddine (trad. di L. Vighi, Bompiani 2013); o la raccolta di poesie Apocalisse araba, della poetessa Etel Adnan (trad. di T. Maraini, Semar 2001).
Se vi piacciono i fumetti, ci sono quelli della giovane illustratrice Zeina Abirached, nata nel 1981: Mi ricordo Beirut (trad. dal francese di Stefano Andrea Cresti, Becco Giallo 2009) e Il gioco delle rondini (Becco Giallo 2009).
Infine vi lascio con un film: West Beirut/Beirut al-Gharbiyyeh (diretto da Ziad Doueiry, 1998) che se non l’avete mai visto, questo mi sembra il momento giusto (è in arabo-libanese con sottotitoli in inglese).
* La foto di copertina è di Gabriele Basilico.