Leggevo su Facebook i discorsi sui massimi sistemi di uno scrittore fantasy italiano abbastanza noto e di cui a volte apprezzo l’occhio critico. Di solito non presto molta attenzione alle teorizzazioni sulla narrativa, perché mi annoiano con la loro fumosa pretenziosità, e spesso mi indispongono pure. Questa volta ho letto, perché si trattava solo di uno scambio di battute tra lo scrittore in questione e un collega, niente di catartico o ufficiale. Se non fosse che, dopo aver letto, mi sono dovuto trattenere onde evitare di scatenare un inopportuno flame. Non ero parte in causa della discussione, per cui non ho risposto.
Però mi ha stimolato lo stesso due o tre riflessioni che ora vi affliggo, rigorosamente dopo il salto.
L’argomento della discussione era il valore letterario della narrativa fantasy italiana, con lo scrittore che sosteneva che i tempi sono maturi perché il romanzo fantasy italiano affronti temi di indiscutibile pregnanza sociale e culturale quali la crisi economica dal punto di vista, taciuto nei romanzi mainstream, non delle fabbriche e dei proprietari, ma dei lavoratori precari.
Non si tratta di concetti nuovi: mi pare che qualcosa del genere sia stato espresso anche da Francesco Dimitri nella prefazione di Il sentiero di legno e sangue di Luca Tarenzi.
Ora, metto le mani avanti. Il precariato, il non avere un lavoro, l’incertezza di riuscire ad avere i soldi per mantenere la propria famiglia fino alla fine del mese sono tre degli orrori quotidiani più grandi che io riesca a immaginare. Fanno paura. Lo so. Ed è giusto che facciano paura. È giusto che se ne parli, perché purtroppo la classe dirigente ha la tendenza o a nascondere il problema, quand’anche a negarlo, oppure a strumentalizzarlo per beceri fini politici.
Ma.
Un grande, grosso MA.
Forse, e dico forse, non voglio sentirmi ricordare che non ho un lavoro, che il trenta percento dei miei coetanei in cerca di lavoro è destinato alla disoccupazione, che magari finirò a fare un lavoro che non centra niente con la mia laurea e che quindi avrò buttato cinque anni di istruzione nel cesso tirando ripetutamente la catena, non voglio sentirmi ricordare che c’è poca speranza nel futuro e sarà così per un bel po’ di tempo. Non quando leggo un fottuto fantasy con elfi e cavalieri.
La narrativa è evasione, piacere. Per lo meno, lo è la mia concezione di narrativa genere. Io, scrittore non famoso, non pubblicato e nemmeno granché bravo, ma comunque scrittore, non scrivo per ammorbare i miei lettori con problemi che affrontano nella vita di tutti i giorni. Voglio che i miei lettori, quando mi concedono dieci minuti del proprio tempo per leggere quelle tre schifezze che ho scritto, possano evadere per un po’ dalla quotidianità. Voglio intrattenere la gente, non pigliarla a pugni nel basso ventre urlandogli in faccia che il precariato fa schifo. Lo sanno. Non sono scemi.
Il che mi porta a trarre una seconda conclusione: per lo scrittore in questione l’unica narrativa degna di dignità è quella che offre riletture filosofiche dei fenomeni sociali.
No.
Questo discorso è perfino peggio dei mille sproloqui di quelli che sostengono che il fantastico sia un genere inferiore perché, appunto, d’evasione. Peggio perché proviene da uno che di mestiere scrive fantasy. In pratica è come se avesse ammesso ai grandi intellettuali di ‘sta cippa che, sì, il fantastico è un sottogenere per bambini perché nessuno parla del precariato. Per quanto mi riguarda, usare la narrazione come un mezzo per raggiungere un fine che non sia quello di intrattenere il lettore è semplicemente aberrante, la negazione assoluta della professione di scrittore. Poi c’è chi ha una alta opinione di sé stesso, e allora la narrativa che non è Arte diventa in automatico merda. Ciò capita molto spesso con autori e critici di narrativa mainstream, e di norma mi faccio due risate e mi allontano. Mi infastidisce, invece, che una concezione del genere provenga da un autore che fa del fantastico il suo genere d’appartenenza.
Che poi io non sto dicendo che il fantastico debba essere stupido perché bisogna solo intrattenere. Sarebbe come dire che i film di natale di Christian De Sica sono comicità perché le gag sulle scorregge sono troppo LOL. Un romanzo fantasy, anche di quelli più beceri e stereotipati, con cavalieri dall’armatura luccicante, principesse in pericolo e oscuri signori del male, può parlare alla perfezione della natura umana e della società contemporanea senza che ciò sia stato stabilito a tavolino e sbattuto di prepotenza in faccia al lettore. Un romanzo, del resto, parla anche del suo autore, che questi lo voglia o meno.
Io contesto la violenza con cui si vuole che la narrativa di genere affronti temi che non sono per lei di primaria importanza, non il fatto che questi temi vengano affrontati.
Terza cosa e poi chiudo. Lo scrittore segnala anche un esempio virtuoso di questa nuova corrente di autori del fantastico in grado di offrire riletture dei grandi fenomeni sociali. Si tratta di un autore di cui non ho mai letto nulla, ma che mi sta gioiosamente sulle palle per altri motivi. In compenso so che i suoi romanzi sono stati massacrati dalla critica che li ha inseriti di rigore trail marciume che ammorba il fantasy italiano. Probabilmente a ragione, visto che l’editore stesso ha optato per una distribuzione solo in formato digitale (ewwww) dell’epilogo della trilogia. Non ho fatto nomi, ma si capisce benissimo di chi sto parlando.
Ora, com’è che vogliamo caricare la narrativa di genere di significati che non dovrebbero essere il suo focus primario, eppure ci va bene lasciare la trattazione di questi stessi temi nelle mani di autori riconosciuti dal pubblico e dalla critica come, ad andar bene, mediocri? Non sarebbe il caso, forse, di avere una narrativa del fantastico italiano degna di tale nome prima di affrontare la questione se sia opportuno o meno arricchirla di significati che direttamente non le appartengono?
Non è neanche mettere il carro davanti ai buoi. Qui stiamo mettendo la corazzata Potëmkin davanti a una muta di criceti aspettandoci che la spingano fino a Odessa.
Il fantastico italiano farebbe meglio a trattenersi dall’esplorare e sviscerare temi di impatto politico, culturale e sociale non perché detti temi non gli appartengono direttamente, ma perché, prima di tutto, non si può assegnare la trattazione di qualcosa di così importante ad autori che non sono in grado neanche di fare buona narrativa.
Perché, per me, la narrativa dovrebbe funzionare così: prima scrivi una storia non decente ma ottima, cioè fai il tuo lavoro di scrittore, e poi – e solo poi – puoi permetterti il lusso di affrontare divagazioni filosofiche.