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Scrivere sul filo del fuorigioco

Creato il 22 aprile 2011 da Libereditor

Scrivere sul filo del fuorigiocoIl romanzo più bello che ho letto recentemente è stato La Versione di Barney di Mordecai Richler. Bello, prodigioso, incalzante, come il Milan di Sacchi. Che squadra quella! Scintillante, gioiosa, invincibile. Ti pressava dal primo minuto, ti metteva al tappeto, tutto era perfetto, sincronizzato, nemmeno una virgola fuori posto. Del resto, cosa si può volere di più da un romanzo?
Passaggi smarcanti e inattesi, organizzazione al servizio della fantasia, e possibilmente qualche colpo di tacco.
Quello che è mancato alla letteratura italiana lungo un secolo, e che continua pericolosamente a mancare, sono proprio i colpi di tacco. È che per noi i colpi di tacco rappresentano una frivolezza, un’inutile sciccheria, laddove per i sudamericani è l’essenza del gioco. Un sudamericano per un colpo di tacco si farebbe spellare! Considerate Garrincha, Maradona, Garcia Marquez.
Ma il colpo di tacco, per i nostri prosatori, è ininfluente ai fini del risultato, e purtroppo il risultato è sempre stata la nostra dannazione, il risultato da ottenere ad ogni costo, pur con un gioco sparagnino e grigio, pur con il catenaccio.
Io passo al vaglio cent’anni di letteratura italiana e mi si stringe il cuore al pensiero che c’è gente che ha messo in panchina Roberto Baggio.
Ci sono ragioni storiche. Già alla fine del Settecento Madame de Staël ci aveva accusato d’esser chiusi in noi stessi, restii ad apprendere lezioni dal resto d’Europa, gelosamente custodi del pallone – come se fosse nostro e solo noi potessimo giocarci. E poi quel d’Annunzio. Grande giocatore, tecnica raffinatissima, ma fascista. Sembra che da quel momento, per rifiutare il fascismo, si sia rifiutato anche il bel gioco.
Noi, in Italia, confondiamo la leggerezza con la superficialità , e di conseguenza consideriamo serio solo ciò che è lugubre e noioso. Palla lunga e pedalare. Uno dei nostri migliori uomini di calcio, Luigi Pirandello, diceva che ci manca l’umorismo. In effetti, ho parlato di giocatori sudamericani, perché il piacere del gioco è una cosa tutta loro – ma anche a livello europeo, abbiamo noi un giocatore che sia al livello di Cervantes, Proust, Joyce? Gente dotata d’umorismo sopraffino, di ambizioni magnifiche e piedi fatati, gente di genio.
I nostri migliori del secolo, in linea di massima, son considerati Pasolini, Moravia, e Calvino. Pasolini era un centravanti prolifico di poca tecnica e molta sostanza; Moravia un gran mediano, uno che macinava chilometri a muso duro; Calvino un geometra del centrocampo, un metronomo, alla Demetrio Albertini. Bravi – ma il guizzo che accende la platea?
Naturalmente ci sono delle eccezioni. Penso a Svevo, ala sinistra velenosissima, spericolata, scoperta troppo tardi – forse proprio per quell’attitudine poco italiana di scherzare con la palla – e morto troppo giovane, prima che potesse dare ulteriori soddisfazioni al nostro calcio; penso a Sciascia (che fuoriclasse!) e al nostro 10 più grande e atipico, Tomasi di Lampedusa, e al più brasiliano dei nostri, Gesualdo Bufalino. Non per niente, tre Siciliani (che si sa son più sudamericani che italiani), e un oriundo.
Quello che a me lascia perplesso degli scrittori italiani, specie di quelli giovani che si affacciano alla ribalta della serie A per la prima volta, è la totale mancanza d’audacia, l’incapacità di prendersi i propri rischi. Scrivono dignitosamente, per una dignitosa carriera, ma sembrano terrorizzati dai fischi del pubblico, dalla disapprovazione della stampa, e pur di accaparrarsi un ricco contratto con una grande società son disposti a fare panchina e tribuna. Annichiliti, forse, dalle scuole di calcio, dove sin da piccoli gli han lavato il cervello a furia di lezioni di tattica, o dal concetto confortevole che il calcio è un gioco di squadra, non azzardano mai una giocata individuale, una cannonata da quaranta metri, un tunnel irridente all’avversario, mai che provino l’ineffabile.
Mi chiedo se arriverà il momento in cui uno scrittore italiano piglierà il pallone a centrocampo, piroetterà su stesso e – concentrato solo sui suoi piedi e null’altro, indifferente a quel che pensa la gente – dribblera’ l’intera difesa inglese come un piccolo dio beffardo, scarterà anche il portiere, depositerà la palla in rete, andrà a raccogliere il bacio di un pubblico in delirio.

(pubblicato originariamente su Vibrisse, Autunno 2006)
di Emanuele Pettener

Con il permesso dell’autore pubblichiamo uno scritto di Emanuele Pettener sugli strani e sorprendenti legami tra sport e letteratura.
Sport e letteratura hanno parecchio in comune. Sono indubbiamente due modi per ritrovarsi e per comunicare, per affermarsi attraverso la propria identità, individuale o collettiva. Forse per questo lo sport è spesso una fonte d’ispirazione a cui tanti scrittori guardano.
Le eroiche gesta dei campioni, le vittorie entusiasmanti, le più dolorose sconfitte. Tutte passioni, suggestioni, slanci, impeti, ma anche storie di emarginazione, di riscatto, di redenzione.
Il calcio, o il fùtbol per dirla con Osvaldo Soriano, è la disciplina che ha forse più solleticato immaginazioni e sogni letterari ed è anche la più conosciuta e amata.


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