L’altro giorno uscendo dall’Università per correre al lavoro mi sono scontrata accidentalmente con un uomo di colore.
Mi sono prontamente scusata, ma mi sono rivolta a lui dandogli del “tu”, anche se aveva una certa età.
Nel tragitto che mi separava dalla scuola mi sono chiesta perché, quando interagiamo con persone di colore o extracomunitari in genere, uomini o donne che siano, giovani o anziani diamo loro del “tu” ed usiamo un tono confidenziale che non ci permetteremmo se le stesse persone appartenessero alla nostra stessa razza ed alla nostra cultura.
Mi vien da pensare che, molto probabilmente, li consideriamo in qualche modo “inferiori” a noi, basandoci su stereotipi e pregiudizi etnico-razziali che, da sempre, sono legati a fenomeni di razzismo e discriminazione rivolti a gruppi diversi dal nostro o a minoranze di vario tipo, connotandoli ancora oggi di valenza negativa.
A conferma di questa tesi vi è un test, creato da Anthony G. Greenwald dell’Università di Washington a Seattle, Mahzarin R. Banaji della Harvard University e Brian A. Nosek dell’Università della Virginia a Charlottesville e divenuto particolarmente popolare, lo IAT (Implicit Association Test), introdotto nel 1998 ed utilizzato da allora in innumerevoli studi scientifici.
Lo IAT misura la facilità e la rapidità con cui le persone associano parole o immagini rappresentanti alcuni gruppi sociali (bianchi vs neri o donne vs uomini) con parole dal significato positivo o negativo. Esistono delle attitudini socio-cognitive nei confronti di altri gruppi razziali che gli individui non sanno di possedere e che sarebbero capaci di negare in totale buona fede: l’insieme di queste attitudini viene identificato con l’espressione “bias razziale implicito”.
Molti anni fa, Fedor Dostoyevskiy ha scritto:
“Ogni uomo ha reminiscenze che non svelerebbe a nessuno se non ai suoi amici. Ha inoltre altre questioni nella sua mente che non direbbe neanche ai suoi amici, ma solo a se stesso, ed in segreto. Ma ci sono altre questioni che l’uomo ha paura di rivelare anche a se stesso, ed ogni uomo corretto conserva un buon numero di tali questioni nella sua mente”.
Questa citazione di Dostoyevskiy cattura due concetti che lo IAT aiuta ad indagare: il primo è che possiamo non avere intenzione di condividere i nostri atteggiamenti privati con altre persone; il secondo che possiamo non essere consapevoli di alcuni dei nostri stessi atteggiamenti.
Ma cosa sono i pregiudizi e gli stereotipi?
Dal punto di vista etimologico il termine pregiudizio indica un giudizio precedente all’esperienza, cioè un giudizio emesso in assenza di dati sufficienti. Per questo motivo il pre-giudizio viene solitamente considerato un giudizio errato, cioè non corrispondente alla realtà oggettiva in quanto carente di validazione empirica: questo nonostante l’errore non sia una conseguenza necessaria della mancanza di dati e, tantomeno, l’esperienza sia garante della bontà dell’interpretazione che si può dare agli eventi (Mazzara 1997 e 1996).
Già Bacone, agli inizi del Seicento, fece una classificazione degli errori o illusioni dello spirito (gli idola mentis), che allontanano dalla vera conoscenza del mondo e che devono essere eliminati affinché lo spirito possa predisporsi alla lettura della realtà in maniera asettica.
Anche Galileo, Spinoza e Vico affrontarono il tema della natura della conoscenza, contrapponendo realtà oggettiva, dimensione soggettiva e dinamiche storico-sociali.
Nel pensiero scientifico moderno, le nascenti discipline sociali cominciarono a studiare il pregiudizio come idea errata ed ostacolo alla vera conoscenza, riferendolo non solamente al singolo individuo (com’era avvenuto in passato), ma anche a specifici gruppi sociali ed introducendo il concetto di pre-giudizio come atteggiamento sfavorevole, in quanto l’errore di valutazione tenderebbe più a penalizzare che a favorire l’oggetto stesso del giudizio (Mazzara, 1997; Taguieff, 1994; Allport, 1973).
Lo stereotipo (dal greco stereòs/rigido e tùpos/impronta) è un concetto relativamente più recente: fu coniato verso la fine del Settecento in ambito tipografico per indicare la riproduzione di immagini a stampa utilizzando forme fisse.
Fu traslato per la prima volta in Psichiatria, riferendosi a comportamenti patologici caratterizzati da ossessiva ripetitività di gesti ed espressioni.
Nel 1922 Walter Lippmann utilizzò il termine in ambito sociale, pubblicando un libro molto interessante ed innovativo sui processi di formazione dell’opinione pubblica. Il processo di semplificazione della realtà, introdotto da Lippmann non avviene per scelta arbitraria individuale, né in modo accidentale o casuale, ma seguendo modalità stabilite culturalmente: gli stereotipi fanno parte della cultura del gruppo e come tali vengono interiorizzati dal singolo ed utilizzati per una più immediata ed efficace comprensione della realtà.
Inoltre essi hanno per l’individuo una funzione di tipo difensivo: contribuiscono al mantenimento di determinate forme di organizzazione sociale e di una certa cultura, garantendo all’individuo stesso la salvaguardia delle posizioni sociali da lui acquisite (Mazzara, 1997 e 1996; Schaff, 1987).
Lo stereotipo può essere considerato, dunque, il nucleo cognitivo del pregiudizio in quanto contiene l’insieme degli elementi di informazione e delle credenze di una categoria di oggetti, rielaborati in un’immagine coerente e stabile in grado di incanalare la percezione dei dati di realtà in direzione del pregiudizio cui appartengono (Mazzara, 1997 e 1996).
Questi concetti aprono inevitabilmente le porte ad innumerevoli ambiti in cui stereotipi e pregiudizi vengono utilizzati: la discriminazione femminile vs il mondo maschile dominante; il pregiudizio etnico-razziale: la vecchia questione razzista bianchi vs neri, piuttosto che l’antisemitismo e la più moderna categorizzazione nei confronti di tutti gli extracomunitari in genere; le più disparate marginalità sociali: gli anziani, i disabili fisici e mentali, gli omosessuali ed i tossicodipendenti.
In psicologia sociale e cognitiva, strettamente connesse ai pregiudizi ed agli stereotipi, troviamo le euristiche: si tratta di strategie cognitive, scorciatoie di pensiero che permettono alle persone di elaborare più rapidamente giudizi sociali, ricavare inferenze dal contesto, attribuire significato alle situazioni e prendere decisioni a fronte di problemi complessi o di informazioni incomplete.
Il principio che giustifica l’esistenza di euristiche si appoggia al paradigma della Social Cognition per cui l’individuo mette in atto comportamenti sulla base di elaborazioni delle informazioni provenienti dall’ambiente esterno e considera il sistema cognitivo umano come un sistema a risorse limitate che, non potendo risolvere problemi tramite processi algoritmici, fa uso di euristiche come efficienti strategie per semplificare decisioni e problemi.
Sebbene le euristiche funzionino correttamente nella maggior parte delle circostanze quotidiane, in certi casi possono portare a errori sistematici, gli stessi errori che rileviamo quando categorizziamo le persone od i gruppi sociali secondo pregiudizi e stereotipi.
Negli anni sono state individuate diverse euristiche; le più note sono: l’euristica della rappresentatività per la quale si tende a classificare un oggetto attraverso il criterio di somiglianza o rilevanza, attribuendo caratteristiche simili a oggetti simili e spesso ignorando informazioni che dovrebbero far pensare il contrario; l’euristica della disponibilità per la quale si tende a stimare la probabilità che si verifichi un evento sulla base della vividità e dell’impatto emotivo di un ricordo, piuttosto che sulla probabilità oggettiva che si realizzi; l’euristica dell’ancoraggio secondo la quale si procede al giudizio di una situazione o di una persona ancorandosi ad una conoscenza già nota e si accomodano le informazioni sulla base di quella conoscenza (Carnaghi e Arcuri, 2007; Tajfel, 1985).
Tutti questi modi di semplificare la realtà alimentano aspettative errate nei confronti di determinate persone, di gruppi o dello sviluppo di eventi sociali e seguono il principio del bisogno di appartenenza che ci spinge con forza a riconoscerci con gruppi simili ai nostri e a nutrire un’avversione naturale ed innata verso coloro che non condividono la nostra cultura e la nostra appartenenza; unitamente alle ragioni storiche e sociali che in ogni epoca definiscono la posizione e le funzioni di ciascun gruppo minoritario ed i rapporti tra ingroup ed outgroup in una determinata società, hanno come conseguenza la stigmatizzazione e l’emarginazione di tutti coloro che non hanno le nostre stesse radici ed origini (I. R. E. S. Piemonte, 1992).
Mi sono chiesta se questo trattare gli immigrati ed in particolare le persone di colore non abbia una radice umanitaria ravvisabile in un tentativo di farli sentire a loro agio ed accolti in un Paese che non è il loro, ma questa spiegazione proprio non mi convince, né mi suona plausibile.
Esclamazioni come “Sporco negro”, “Hitler aveva ragione” o “Albanesi assassini” sono ancora inscritte nel frasario comune, dimenticando che l’articolo 3 della Costituzione Italiana recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Insomma, esattamente come accadeva nel Dopo Guerra nei confronti degli immigrati dal Sud, consideriamo gli extracomunitari di rango inferiore, persone da trattare con condiscendenza, sufficienza e poco riguardo, indipendentemente se in regola con i permessi di soggiorno, se paghino regolarmente le tasse e si comportino da onesti cittadini.
E ci sono caduta anch’io…scontrandomi con un uomo di colore non più giovane, normalmente vestito, che andava tranquillamente per la sua strada e che forse, come me, si recava al lavoro nel momento in cui ho esclamato, se pur gentile e sorridente, ma per nulla imbarazzata: “Scusami, non ti avevo visto passare…”.
BIBLIOGRAFIA
Allport, G. W. (1973) – La natura del pregiudizio – La Nuova Italia: Firenze
Brown, R. (1990) – Psicologia sociale dei gruppi – Il Mulino: Bologna
Carnaghi, A. Arcuri, L. (2007) – Parole e Categorie, la cognizione sociale nei contesti intergruppo – Raffaello Cortina: Milano
I.R.E.S. Piemonte (1992) – Rumore. Atteggiamenti verso gli immigrati stranieri – Rosenberg & Sellier: Torino
Mazzara, B. M. (1997) – Stereotipi e pregiudizi – Il Mulino: Bologna
Mazzara, B. (1996) – Appartenenza e pregiudizio. Psicologia sociale delle appartenenze interetniche – Carocci: Roma
Rosenthal, R., Lenore, J. (1972) – Pigmalione in classe. Aspettative degli insegnanti e sviluppo intellettuale degli allievi. – Franco Angeli: Milano
Schaff, A. (1987)- Gli stereotipi e l’agire umano – Edizioni Adriatica: Bari
Sherif, M. (1972) – Interazione sociale – Il Mulino: Bologna
Taguieff, P. A. (1994) – La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull’antirazzismo – Il Mulino: Bologna
Tajfel, H. (1985) – Gruppi umani e categorie sociali – Il Mulino: Bologna
Per fare il test IAT ed avere i risultati: https://implicit.harvard.edu/implicit/italy/takeatest.html