Pablo Picasso, Maïa with a doll
Uno al prezzo di due (talvolta anche di tre).
Questa è la storia del frazionamento dei grandi appartamenti di una volta.
Dove c'era un'unica dimora ed un'unica famiglia, non necessariamente grande, c'era posto per tutto ed ognuno aveva un suo spazio indipendente o almeno una porzione di esso.
Cucina e poi tinello, per il rito dello stare insieme, chi cucinando e chi guardando cucinare; ma anche un luogo a parte per mangiare o per stare con ospiti molto di famiglia, sorseggiare un caffè, lasciare andare le chiacchiere, staccare un momento dalla routine.
Poi c'era una stanza da lavoro, per il guardaroba, lo stirare, il cucire: un sacrario di piccoli rocchetti di fili colorati, bottoni preziosi e scintillanti, cerniere lampo misteriose come coccodrilli addormentati, gomitoli e gomitoli di lana, a volte matasse da dipanare e trasformare i gomitoli (un orrore di passatempo per le serate di inverno).
Il salotto buono, misterioso, quasi sempre chiuso: ampie tende alle finestre, lampadari di cristallo, poltrone su cui sedersi in punta, per non sgonfiare la soffice rotondità dei cuscini, soprammobili da guardare con attenzione (guardare e non toccare), statuine di biscuit con le cui misteriose presenze costruire storie. Spesso vi riposava, compatto, l'acre odore delle sigarette (allora fumavano davvero tutti), inestricabilmente legato al mondo degli adulti.
Una stanza da contemplare da lontano, dalla soglia, nei giorni di pulizia, in cui la polvere spostata e allontanata dai piani di vetro si diperdeva illuminandosi nel pulviscolo sospeso.
Le camere erano tante, riservate a membri accoppiati della famiglia: non solo i genitori, ma anche fratelli separati dalle sorelle, qualche nonno fisso o di passaggio. Ricordo che un'amica aveva anche una stanza per una domestica: una presenza silenziosa che spiavo curiosa, che mi rimandava a favole di piccole fiammiferaie e principesse rapite in schiavitù.
E i bagni, enormi, dove le voci rimbombavano, una eco dalle vasche in porcellana o in ferro smaltato, con quei piedi di grifone; e la lavanderia a parte.
Poi c'erano ripostigli e armadi a muro e dipense; e terrazze e balconi; e soffitte e cantine.
C'erano: oggi non ci sono più.
Resta lo scheletro vuoto, il guscio, di quei magici appartamenti dai corridoi chilometrici.
Oggi non riusciresti più a trovarne uno.
Sono stati tutti sventrati, smembrati, frazionati. Da uno se ne fanno due, o tre, o quattro. Scatole di montaggio, appartamenti matrioska.
Sulle scale resta un unico portoncino, ma dentro si aprono, a ventaglio, le diverse entrate. Ognuna si schiude su un mondo diverso, nuovo, una prospettiva inimmaginata, rumori insoliti e ravvicinati, non più l'eco e i silenzi delle grandi stanze.
I proprietrari di quelle piccole noci devono dividersi anche la cassetta per la posta nell'atrio di ingresso che per amore della simmetria non si tocca. Nomi nuovi, cartellini attaccati con il nastro adesivo, ignoti che prendono in tre il posto di uno.
Sembrerebbe un fiorire, invece è un appassire.
In questi appartamentini non si può vivere: a mala pena ci si può dormire.
I palazzi somigliano sempre di più a colombai notturni, le luci si accendono un attimo, a notte, ma non fai in tempo a conoscere nessuno, tutti nascosti e avvolti nel guscio della loro casa-lumaca.