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Se apro gli occhi

Creato il 11 dicembre 2011 da Marinobuzzi

Sono nato nel 1976 e, nonostante un padre operaio e comunista, mi sono lasciato cullare dal sogno del benessere. Per benessere, a sentire quel Faletti che negli anni ottanta voleva un bel “giumbotto” e che oggi è preso ad esempio come emblema della cultura italiana, si intende il possedere oggetti, il fare soldi, l’avere potere.
Si sono alternati, al potere, governi e persone, alcune sono entrate e uscite di prigione senza mai smettere di far parte della vita politica di questo paese. Abbiamo creduto in una chiesa che predica povertà e, almeno ai vertici, fa parte del sistema. Una chiesa che decide quali leggi vanno fatte e quali no, che, addirittura, arriva a sostenere una “disponibilità” a pagare l’ICI senza neppure porsi il problema che uno stato laico non dovrebbe chiedere il permesso alla CEI prima di fare una legge. Un governo laico e giusto dovrebbe pensare al bene dei cittadini e delle cittadine, non a quello del potere.
Eppure ci abbiamo creduto, abbiamo creduto al sogno italiano, al benessere facile, alla televisione che formava tanti piccoli soldatini pronti a spendere le proprie paghette in qualche oggetto inutile. Abbiamo costruito per il guadagno, abbiamo imbrogliato per il guadagno, abbiamo distrutto per il guadagno.
Ci ho creduto anch’io al sistema. Prima che crollasse tutto, prima che il disgusto per l’eccesso si impadronisse di me, prima che mi rendessi conto che il consumismo è destinato a un misero fallimento.
Prendiamo a modello i grandi dell’economia, i manager che ci dicono che bisogna essere ottimisti mentre ti mettono davanti un bel piatto di sterco e ti costringono a ingoiarlo, cucchiaio dopo cucchiaio, come in un incubo pasoliniano, ti dicono “sorridi” mentre ingoi e perdi diritti, ti dicono “ci devi credere!” mentre il tuo stipendio è un decimo del loro.
Arrivi però, dopo che la grande bolla è esplosa e altre sono pronte a farlo, a un punto in cui ti guardi indietro e ti rendi conto che hai lavorato tanto, che hai rinunciato a una parte della tua vita per il lavoro e il capitale, per non avere nulla. Guardi il tuo presente e quello zero che c’è sul conto corrente, siamo neppure a metà mese e questi dicono che devi consumare per far girare l’economia. Consumare. Certo. Peccato che lo stipendio sia finito grazie ad affitto/benzina/tasse varie. Ogni tanto abbiamo ancora il vizio di mangiare, diciamo grazie.
Ma non si può stare senza il benessere, no? Allora fai le vacanze a rate, compri la televisione ultimo modello a rate, ti compri l’iphone a rate.
Mica vorrai rinunciare al benessere!
E lavori, certo.
O per meglio dire, lavori se il lavoro ancora ce l’hai e ti rendi conto che, piano, piano, con la scusa della crisi, qualcuno ti chiede qualcosa di più. Prima una cosa, poi un’altra e se alzi il capo ti mostrano la porta e ti dicono: “Abbiamo la fila di gente che cerca lavoro” oppure “Andiamo a produrre in Cina o in Polonia che lì son felici di farsi sfruttare”.
Ma la cosa peggiore è che cercano di mettere le generazioni una contro l’altra. Se siamo in crisi è colpa dei vecchi e delle loro pensioni, certo. Oppure dei giovani che non consumano abbastanza. Certo.
Però, a un certo punto, apri gli occhi, se non sei completamente idiota, e ti rendi conto che un po’ ti hanno preso per i fondelli. Che consumare non è il verbo e che Steve Jobs, giusto per citarne uno, non era un messia. E lo so, lo so che qualcuno si arrabbierà e mi dirà che non si parla male dei morti. Ok, va bene. Ma apriamo gli occhi per favore perché ci hanno fregato alla grande.
Mi sento uno zombie ogni volta che scendo dal treno. A proposito avete notato che con i rincari della benzina c’è sempre più gente che utilizza i mezzi pubblici? Sì? Pare che ce ne siamo accorti solo noi perché i treni sono sempre gli stessi, in numero, in passaggi e, purtroppo, anche in odori e orrori. No ma c’è l’alta velocità da fare, certo. Fondamentale come il ponte sullo stretto di Messina. Peccato che i pendolari utilizzino quei treni di cui non frega niente a nessuno. Si chiamano regionali.
Mi sento uno zombie, dicevo. Siamo una massa informe di persone che attraversano il sottopassaggio e si riversano nelle vie di Bologna. Abbiamo un cartellino da timbrare e uno stipendio da guadagnare. Sì, lo stesso stipendio che alla seconda settimana del mese finisce.
Ma bisogna essere ottimisti, certo.
Guardare al futuro.
Certo.
Alla pensione magari. Se ti va bene ci arrivi a settant’anni. Io che ho iniziato a lavorare, stagionalmente, a quattordici anni forse ci andrò a sessantasette. Se le cose non cambieranno ancora, naturalmente. Sono certo che in pensione farò tutto ciò che non ho potuto fare a trentacinque anni. A dire il vero non ne sono così sicuro. No, non sono convinto per niente. Una cosa la so.
Mi guarderò indietro, prima o poi, e mi darò del coglione.
Marino Buzzi


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