Se Chiara Lalli crede di essere una mosca…

Creato il 28 settembre 2013 da Uccronline

La matematica/filosofa/tuttologa Chiara Lalli ha dimostrato di aver imparato benissimo dal suo maestro Piergiorgio Odifreddi: il suo intervento sui quotidiani non dev’essere solo divulgazione scientifica ma va usato per infilarci una propaganda, esplicita o velata, al determinismo ateo (o contro la maternità e a favore dell’aborto, questo è l’altro tema di cui è appassionata).

Se vediamo un articolo firmato da lei sappiamo già il secondo fine ed infatti ce lo aspettavamo leggendo ieri la sua recensione sul “Corriere” all’ultimo lavoro di Edoardo Boncinelli, “Una sola vita non basta” (Rizzoli 2013).  La Lalli ha raccontato dell’incontro tra Boncinelli e Walter Gehring, il quale ha isolato tre geni omeotici della drosofila capaci di controllare altri geni, una loro mutazione può provocare profonde alterazioni nel corpo della mosca. Boncinelli ha approfondito gli studi sull’uomo scoprendo a sua volta l’esistenza di geni con un ruolo simile a quello dei geni omeotici nella drosofila. Un bellissimo lavoro dunque che grazie alla interessante recensione della Lalli è divenuto pubblico.

Ma poteva finire qui senza una stoccata ai suoi nemici, i credenti, strumentalizzando la scienza per le proprie battaglie ideologiche? Ovviamente no, così la Lalli si è avventurata oltre affermando che l’aver trovato dei geni simili tra mosca e uomo avrebbe anche «un’eco filosofica». Via dunque alla propaganda riduzionista: «non siamo poi così “speciali”, diversi da una mosca, almeno nei componenti fondamentali. È facile capire lo scombussolamento di chi si crede appartenente a una specie ontologicamente superiore alle altre». Scombussolati perché Boncinelli ha trovato dei geni simili tra uomo e mosca? Addirittura scomodando l’ontologia dell’essere umano?

Pensate quanti salti di gioia farebbe Chiara Lalli se scoprisse che l’uomo non condivide dei geni solo con la mosca ma perfino con l’albero di Natale! Noi esseri umani abbiamo inoltre il 50% del DNA in condivisione con la banana, il 90% con il gatto e l’80% con la mucca. Quindi, secondo il suo ragionamento del “non siamo poi diversi da una mosca”, l’uomo sarebbe anche per metà una banana, in gran parte un bovino da latte e per il 90% un felino che miagola. Possibile che possa esistere ancora oggi uno sguardo talmente miope sull’essere umano, ridotto ai suoi fattori genetici? Ancora qualcuno che crede che l’irriducibilità dell’uomo possa essere smentita dai geni in comune con piante e animali?

Comprendiamo il disappunto di Adriano Favole, antropologo dell’Università di Torino per «il ritorno prepotente di una sorta di monopolio delle scienze biologiche (dalla chimica alle neuroscienze) nella definizione della condizione umana». Questi sono semplicemente «abusi politicamente strumentalizzati», dal nome di “determinismo genetico”. Giorgio Dieci, docente di Biochimica all’Università di Parma, ha aggiunto in modo significativo: «L’idea che gli organismi viventi e la loro evoluzione siano ultimamente, esattamente riconducibili al DNA e alle sue dinamiche mutazionali e replicative, idea di cui non sono mai mancati i sostenitori a oltranza fuori e dentro il mondo scientifico, sopravvive soprattutto nella retorica di certe discussioni pubbliche e fonti divulgative, spesso dominate dallo sforzo di non ammettere lacune nella conoscenza dei meccanismi dell’evoluzione e dell’essenza dei viventi, anziché dall’entusiasmo nel constatare l’inaspettata ampiezza d’orizzonte che l’analisi sempre più approfondita dei genomi, e della intricatissima loro espressione nel contesto cellulare, sta rivelando. Dove sono scritte la cavallinità del cavallo, la “quercità” della quercia, l’umanità dell’uomo?». Gereon Wolters, filosofo dell’Università di Costanza ha sapientemente svelato quel che si cela dietro ai tentativi, come questo di Chiara Lalli: «Se fosse possibile mostrare che anche il comportamento è geneticamente determinato, questo sancirebbe il trionfo definitivo del riduzionismo: anche i meccanismi cognitivi, l’azione morale e, in ultimo ma non di minore importanza, la credenza in Dio, diverrebbero generi di comportamento determinati dai nostri geni. Le discipline corrispondenti, come ad esempio l’epistemologia, l’etica e la teologia perderebbero inoltre la loro autonomia e il loro diritto di esistere al di fuori della biologia».

Il dogma dell’ateismo militante, ha spiegato Francesco Agnoli, è l’essere costretto a negare l’uomo per poter negare Dio. «Perché negare Dio», ha scritto, «ha significato da sempre ridurre l’uomo ad un elemento della natura, equivalente ad un sasso o un albero; ridurlo via via a frutto del Caso, a un “esito inatteso”, a una “eccezionale fatalità”, a un aggregato di materia senz’anima, a un meccanismo geneticamente determinato, a un membro indistinto di una non meglio identificata Umanità, di una Razza o di una Classe sociale. E’ infatti una caratteristica tipica di tutti gli ateismi – da quello darwinista-materialista a quello marxista, da quello animalista a quello new age – quasi un risentimento, un rancore verso l’uomo, come singolo, unico e irripetibile, che reclama testardamente un senso più alto».

Se Chiara Lalli si crede convinta nel volersi paragonare ad una mosca, una mucca o un gatto non saremo certo noi ad impedirglielo. Auspichiamo tuttavia uno sguardo più aperto e profondo sull’essere umano e una vera divulgazione scientifica, non proselitismo. Anche perché, è sotto gli occhi di tutti, Dawkins e Odifreddi non hanno poi fatto una bella fine.

La redazione


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