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Se Facebook aiuta le indagini su Messina Denaro

Creato il 26 febbraio 2016 da Trescic @loredanagenna
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Un identikit di Matteo Messina Denaro

Quello che Tim Cook ha trasformato in un caso internazionale, in una faccenda di principi inviolabili sulla quale è tornato anche ieri in un’intervista all’Abc News, Facebook ha svolto nel silenzio e senza plateali opposizioni, sulla base di un decreto statunitense di perquisizione dei suoi server relativamente a una serie di account utilizzati dalla sorella del superlatitante Matteo Messina Denaro, Anna Patrizia Messina Denaro. Il social network è un servizio, l’iPhone un prodotto, è vero. Sono territori in parte diversi: in fondo anche Apple non ha avuto alcun problema nel concedere gli estremi dell’account iCloud di Syed Farook, il pluriomicida di San Bernardino, concentrando tutta la sua opposizione sui sistemi di sicurezza dello smartphone. Dunque è quello il livello al quale si dovrebbero paragonare le due storie che, in modi diversi, stanno intrecciando in questi giorni i colossi dell’hi-tech e le istituzioni. Racconta oggi Salvo Palazzolo su Repubblica del complicato percorso che ha portato, tramite una rogatoria internazionale con un tribunale californiano, la procura di Palermo diretta da Francesco Lo Voi a poter aprire una porticina nei server di Menlo Park per recuperare la messaggistica scambiata dalla sorella del boss di Cosa Nostra, che si celava dietro account sempre diversi, con altri misteriosi interlocutori. La speranza è che dalle masserie delle campagne di Trapani la caccia al 53enne latitante, condannato all’ergastolo per le stragi di Roma, Milano e Firenze e mandante, secondo la procura antimafia di Caltanissetta, degli attentati di Capaci e via D’Amelio, da molti considerato il nuovo capo della criminalità organizzata nell’isola dopo l’arresto di Bernardo Provenzano, possa traslocare per un po’ nel mondo digitale per tornare a scaricare i suoi effetti in quello reale. E condurre alla cattura, attesa ormai da troppo tempo. Il sospetto che la sorella di Messina Denaro coordinasse affari, decisioni e movimenti anche attraverso il social network, e il suo servizio di messaggistica interna, è spuntato nel corso delle indagini che hanno condotto al suo arresto. Non solo i pizzini tradizionali, dunque, ma anche virtuali. Tutti – anzi, non proprio tutti – improvvisamente cancellati nel dicembre 2013, poco prima di essere catturata, forse dietro una soffiata. È a quei contenuti rimasti, scambiati aprendo e chiudendo profili diversi, e agli indirizzi IP dei destinatari che gli inquirenti puntavano con la complicata operazione internazionale evidentemente andata a buon fine. E ai quali sarebbero dunque arrivati grazie alla collaborazione della giustizia americana con i magistrati palermitani, la Dia e grazie al sostegno della Direzione nazionale antimafia guidata da Franco Roberti e dall’Fbi. Quella stessa Fbi che tramite un altro tribunale californiano ha chiesto ad Apple supporto tecnico per individuare il passcode dell’iPhone 5c del killer Farook. Ricevendone la tempesta mediatica che ne è scaturita e che potrebbe innescare un percorso di mille esiti: verso una nuova legge così come sulla strada di Washington, destinatario Corte Suprema statunitense. I casi, si diceva, sono uguali e diversi. Uguali sotto il profilo comunicativo: c’è un’indagine su un sanguinoso agguato o, nel caso italiano, su un’eterna latitanza di un pericoloso mafioso, il più potente ancora in libertà. C’è un corpo speciale, Fbi e Dia, che chiede supporto tecnico e accesso ad alcune informazioni a due colossi della Silicon Valley per il tramite di un tribunale locale. Nel primo caso, come dicevamo, si tratta però di compromettere – anche se non è così e non si parla di vere e proprie backdoor – l’inviolabilità di un apparecchio. Nel secondo di consentire l’accesso a certi contenuti memorizzati sui server della società, fatto ben più frequente come dimostrano per esempio i rapporti della Electronic Frontier Foundation dedicati agli atteggiamenti dei pachidermi tecnologici nei confronti delle richieste di governi e tribunali. Dunque è nell’oggetto della richiesta che le vicende si biforcano. Tuttavia, data la fase storica, non si biforcano nelle menti dei cittadini né tantomeno nella questione di base che continua a sovrintendere l’intero tema: se questi strumenti, come molti altri in passato, possono essere utilizzati anche per fini negativi, per esempio nell’organizzazione di stragi o affari criminali per non parlare del terrorismo internazionale, è giusto che le aziende che li producono o li gestiscono consentano a chi indaga di accedere rapidamente, magari tramite quegli “ingressi privilegiati” che in molti vedono come un attentato alla libertà degli utenti, oppure è fondamentale che questa operazione sia di volta in volta autorizzata da un giudice? Il problema, però, può fioccare anche dopo le decisioni giudiziarie che dovrebbero garantire la sensatezza e la portata dell’intervento: che succede se, contrariamente alla collaborazione di Facebook, quell’azienda si rifiuta di seguire le indicazioni del tribunale, come ha fatto Apple nel suo ricorso? Possiamo insomma lasciare a un pugno di potenti corporation private la discrezione di decidere cosa può essere indagato e cosa non può esserlo nel severo recinto dei propri prodotti e servizi, anche se quei prodotti e servizi sono diventati terreno privilegiato di comunicazioni di ogni genere? The post Se Facebook aiuta le indagini su Messina Denaro appeared first on Wired.

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