Lo confesso: anche se frequento (non moltissimo) i social network sono veramente poco “social”.
Condivido poco e solitamente solo contenuti di mia produzione (come i post di questo blog) o qualche frase o immagine che trovo geniale, che possa far riflettere o anche solo sorridere, ma capita veramente raramente.
Anche con i “like” sono particolarmente parsimoniosa e commento solo quando ho qualcosa da dire (come, del resto, mi sembra più che ovvio).
Non sopporto, invece, la pletora di post di contenuto strappa-lacrime della serie: bimbi malati, gattini spelacchiati, paesaggi deturpati e altre fonti di indignazione assortite che vengono condivisi a profusione e che ottengono vagonate di “like”.
A parte il vaghissimo odore di “bufala” che ho sempre l’impressione di percepire spesso mi chiedo a cosa servano certi post.
Servono forse a sollevare un problema? Servono a portare a conoscenza di moltissimi una situazione critica? Servono a provocare indignazione, compassione, partecipazione emotiva?
Va bene, e poi?
Basta un “like” per esternare il proprio impegno, il proprio desiderio di cambiare?
Ci sono situazioni davanti alle quali possiamo reagire in modi differenti: restare indifferenti, rimboccarci le maniche e cercare di trovare una soluzione oppure, più semplicemente, cliccare su “mi piace”, magari condividere e commentare e poi passare ad altro.
“Se hai un kuore, Kondividi” (scritto proprio così: con le “K”) non serve a molto, non contribuisce a salvare vite umane e, personalmente, mi provoca un attacco di orticaria.