di Alessandro Diotallevi
Potrà sembrare una lettura ingenerosa delle parole del giovane presidente del consiglio italiano, ma quando dice che gli italiani debbono capire (talvolta usa la parola rassegnarsi) che non c’è più la prospettiva di un lavoro con le caratteristiche che hanno accompagnato questo diritto fondamentale negli ultimi cinquant’anni, dice sostanzialmente che la politica è inerme rispetto al mercato. Dice sostanzialmente che le modifiche delle leggi sul lavoro non possono che consistere in una trasformazione dei contratti a tutto vantaggio delle imprese perché da loro dipende la sopravvivenza del sistema economico del paese. Dice che la Centesimus annus è incorsa in un grave errore quando ha indicato tra i diritti umani il diritto a partecipare al lavoro e a ricavare da esso il sostentamento proprio e dei propri cari. Vi contrappone una visione neoassistenzialista per cui se il mercato annienta il lavoro, cioè se ne infischia di costruire cicli di produzione che abbiano a cuore la persona e lo sviluppo è disumanizzato, i lavoratori debbono essere soccorsi con forme di solidarietà molto prossime alla carità ed accontentarsi. A questo modo di interpretare l’attuale crisi, di massima non si contrappongono seri schemi alternativi che suggeriscano serie e adeguate modalità di superamento e di stabilizzazione.
Il messaggio politico prevalente fa credere che l’odierno, diffusissimo arretramento economico e sociale sia quasi frutto di una meccanicistica intelaiatura della storia e lascia in penombra, volutamente, la responsabilità dell’uomo e della politica. Mentre, con forza, andrebbe contrapposto coralmente un canone sociale d’ispirazione cristiana che è il seguente e non può essere lasciato negli scaffali che custodiscono insieme ai documenti con i quali siamo cresciuti anche le nostre coscienze, gli uni e le altre molto impolverati: “se non è di tutto l’uomo e di ogni uomo, lo sviluppo non è vero sviluppo”. C’è più futuro per l’umanità in questo passaggio della Populorum Progressio che non in tutti i Jobs act di tutti i paesi sviluppati di questo mondo ferito e illuso e incapace di valorizzare un messaggio che è cristiano ma appartiene a tutta l’umanità: La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli.
Torniamo al messaggio politico che subiamo, rilanciato troppo spesso acriticamente da quei media che “hanno”, si badi bene non “avrebbero”, soprattutto quando sono finanziati a carico della comunità, il dovere di aprire il dibattito, di farvi partecipare la società nelle sue espressioni organizzate.
È di scuola liberale la riflessione che sostiene questo approccio appena enunciato: “sia la natura umana, sia la comprensione che ne possiamo avere possono progredire attraverso una spirale di crescente comunità e decrescente dominio”. Alla stessa stregua, la società progredisce quanto maggiore sia la coesione di comunità e minore il dominio non corretto da forti prescrizioni istituzionali.
In parole semplici, il messaggio politico è il seguente: i mercati hanno le loro regole, queste regole hanno le loro conseguenze, a queste conseguenze dobbiamo adattarci. Quindi, smantelliamo la storia sociale del nostro paese, contrassegnata da forti vulnerazioni, io dico per lo più prodotte da una politica dominante e golosa di accentuazioni di dominio (legge elettorale, attacchi feroci alla Costituzione, corruzione, selezione del personale di partito di tipo servile, partecipazione ed iscrizioni ai partiti truccate). Sostituiamo alle leggi che l’hanno costruita, questo il Jobs act, altre che abbiano come unica ispirazione quella di accompagnare l’arbitrio dei mercati.
Immagino già l’orrore che ingenera questa modesta affermazione tra i vati della riforma del diritto del lavoro. Io la traggo da una catena logica di questo tipo. La globalizzazione, molto meglio di qualsiasi testo di economia politica, ha messo in luce quali siano gli effetti redistributivi del libero mercato. Mi posso sbagliare ma non ce ne sono. Per certo, la globalizzazione ha prodotto, grosso modo questo effetto principale: che le imprese hanno abbandonato certe produzioni, hanno rilocalizzato i loro cicli produttivi nelle aree di maggiore comodità di accesso ai fattori della produzione, risorse umane e finanziarie, là dove le prime sono inermi e le seconde possono spadroneggiare con “crescenti” coperture legali. Ma soprattutto, si sono avvalse di una decrescente capacità di governo dei processi economici da parte dei singoli Stati, persino dei più grandi, e perfino delle unioni di Stati, per tutti l’Unione Europea.
Cosa ne è venuto in cambio. In primo luogo, la diffusione delle epidemie finanziarie. Infatti l’economia globale si nutre di enormi investimenti sostenuti dalla finanziarizzazione del mondo, che produce profitti incontrollati. In secondo luogo, ne sono scaturiti scadenti vantaggi nei prezzi delle merci. Quasi immediatamente, i mercati hanno drenato i vantaggi di minor costo di produzione delle merci, depositandoli presso gli attori principali, anziché presso i consumatori. Se un golf costa alla produzione cinque euro è dimostrato che il consumatore italiano, al pari di quasi tutti gli altri consumatori, lo pagherà 100 euro. Perché? Ma, perché i mercati odierni irridono le leggi economiche che abbiamo provato ad apprendere nel corso dei nostri studi. Anzi, più correttamente, i mercati odierni, tutti insieme costruiscono e costituiscono un unico gigantesco monopolio, e le leggi monopolistiche, quelle sì vengono applicate!
In terzo luogo, i poveri sono rimasti poveri, nonostante la crescita degli indici economici degli Stati in cui continuano a sopravvivere, e molti lavoratori dei ceti medi di tutto il mondo arretrano verso le soglie di povertà con evidenti ripercussioni sulla natalità, livelli di salute, su livelli di educazione scolastica, sulle prospettive per i propri figli.
In quarto luogo, cito dall’ex presidente della Corte Costituzionale, “gli imperativi sistemici provenienti dai mercati globali e dalla concorrenza internazionale producono la deresponsabilizzazione dei sistemi democratici e fanno smarrire ogni ragione e significato al metodo democratico”. Provo a tradurre; la copertura costituzionale dei diritti dei lavoratori va dissolvendosi. Un esempio: se un salario, oggi, ammonta a 700 euro, per certo non può superare il vaglio di costituzionalità sulla base dell’articolo 36 Cost., perché evidentemente non assicura al lavoratore e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Cioè, se impugnassimo le più recenti leggi che hanno, fra l’altro, messo in un angolo la contrattazione collettiva, mai supererebbero l’esame di costituzionalità. È chiaro che si tratta di una via che non produce effetti di cambiamento quali sono necessari in ambito sociale; per questo obiettivo è necessaria la politica. Non questa politica, quella che con qualche difficoltà identifichiamo nella gestualità scomposta delle dichiarazioni e nella approssimatività delle proposte formali, ma una politica che sappia leggere la comunitarietà su un piano globale, meglio, su un piano universalistico, in cui scendano in campo idee forti, sorrette da valori forti. Anche in questo caso, mi appoggio ad una riflessione già fatta, da Giulio Prosperetti: nell’attuale contesto economico globalizzato e post-industriale, in una situazione di disoccupazione cronica e strutturale, dobbiamo considerare che il sistema di welfare non è più sostenibile secondo la logica della solidarietà interna alla classe lavoratrice. Riesco a tradurre questa preoccupazione soltanto alla luce della nostra Costituzione, secondo la quale la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Sono passati quasi cinquant’anni dalla Populorum Progressio e i suoi accorati appelli all’urgenza delle riforme si sono tradotti in pseudoriforme. C’è un grande buco nero, via via più largo, che ha ingoiato e ingoia persone. Che fare? Dobbiamo “mobilitarci in concreto con il “cuore” per far evolvere gli attuali processi economici e sociali verso esiti pienamente umani”.
Nonostante l’enormità dell’impegno, dato anche il piano globale in cui deve svilupparsi, forte della speranza di cui è intessuto l’insegnamento della Caritas in Veritate, ce la dobbiamo fare, con uno spirito di decrescente dominio certo e di crescente attenzione alle comunità. Da dove partire è chiaro: riorganizzando l’astensionismo elettorale, figlio legittimo del disagio morale che la politica dei partiti ha provocato e provoca, in forme di partecipazione condivise. Se non ci riusciamo è colpa nostra.