Dirò forse qualcosa di impopolare, ma a me sembra che il concertone del 1° maggio di piazza San Giovanni ormai sia diventato un ghetto. Uso l’espressione “ghetto” nella sua accezione più comune, ossia per intendere un’area perfettamente circoscritta in cui una minoranza di persone sopravvive, insieme alle proprie idee invise al potere, in regime di reclusione. Mi è bastato guardare le immagini che rimbalzavano sulla rai ieri sera, ascoltare l’inondante retorica sul tricolore, i quattro residui stanchi dell’epoca d’oro del veltronismo che declamavano slogan agghiaccianti e vuoti, i musicisti sul palco che facevano a gara a chi buttasse là la provocazione politica più irriverente, per avere l’impressione desolante di trovarmi di fronte a una riserva, all’ampolla che conserva in vitro un mondo ormai perduto. Gli attacchi frontali, la durezza di certe dichiarazioni, in un contesto così circoscritto che sopravvive da anni in modo autoreferenziale, mi sembrano banalmente aderenti e funzionali alle logiche di potere che sorreggono questo paese. Nel circuito ramificato del neofascismo mediatico, la concessione, che avviene una volta l’anno, di uno sfogo di massa in cui far convogliare gli ultimi rigurgiti di un’ideologia di sinistra al collasso e incapace di rinnovarsi, rappresenta una specie di valvola di sicurezza che preserva il potere. Personalmente non ho a cuore la sopravvivenza di questa fucina di slogan da social network che spesso nasconde i più arroganti e dispotici messaggi promozionali (chi ricorda due anni fa Sergio Castellitto che arringa la folla e poi piazza una spudorata tirata all’ultima fatica letteraria della moglie Margaret Mazzantini?). Credo invece che la dimensione associativa di massa della sinistra italiana vada reinventata, che sia giunto il tempo di uscire dalle logiche dell’intrattenimento e dei grandi riti di purificazione, per riappropriarsi delle idee in maniera individuale, concreta, quotidiana. Non una volta l’anno. Ma ogni giorno. In ogni istante. Sempre.
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