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Se il ricordo condiviso cancella la memoria

Creato il 27 gennaio 2012 da Gadilu

Pubblico qui la versione integrale di un “Elzeviro” uscito oggi sul Corriere dell’Alto Adige.

Il passato delle vittime e dei carnefici è e deve restare diviso.

Difficile che in un solo “giorno della memoria” si possa dar conto della parte più significativa di quel che si dovrebbe adesso e in futuro rammemorare. A non essere quasi mai incluso in questo conto è il punto di vista (inteso come unica prospettiva per l’individuazione di un comune patrimonio di ricordi) grazie al quale noi oggi accediamo alla meditazione di ciò che “è stato”. Non è assurdo, per esempio, pretendere di riferirci a un’unica memoria dei carnefici e delle vittime? E per ciò che ormai quasi esclusivamente ci riguarda, come conciliare la memoria degli eredi dei carnefici e degli eredi delle vittime? Quali condizioni di “tregua” dovranno poi essere concordate tra queste due parti divise all’origine da fatti tanto diversi? Quando Primo Levi, in quel terrificante documento rappresentato dalla poesia che apre Se questo è un uomo, impone a noi tutti il dovere di non dimenticare, le sue parole non si limitano ad ammonire chiunque coltivi la scellerata intenzione di disobbedire (“O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi”) ma ci costringono necessariamente ad ampliare il raggio di una domanda che concerne l’esercizio e la finalità etica di ogni memoria: com’è potuto accadere? O anche: perché abbiamo permesso che ciò accadesse?

Negli ultimi anni si è imposta una formula di successo, secondo la quale l’obiettivo da porsi nei confronti di tutti gli accadimenti inerenti un passato altamente conflittuale sarebbe quello di coltivare una memoria “condivisa”. Penso che dobbiamo avere il coraggio di affermare che ciò non sia possibile. Di più: dobbiamo dire con ferma convinzione che dietro la mielosa retorica della “condivisione” ha spesso lavorato un tentativo subdolo di livellamento di ogni possibile differenza tra la memoria dei carnefici e quella delle vittime (i carnefici hanno quindi tentato di cancellare la memoria dei propri misfatti attraverso il formalistico tributo alla memoria delle loro vittime). E in Italia questo tentativo è stato praticato in un modo così esteso da intaccare alcuni bastioni della nostra stessa identità civile. In particolare è stato attaccato il valore dell’esperienza antifascista, sottoposta da più parti a una profonda revisione interessata a sospendere o comunque a relativizzare la condanna su molti aspetti della dittatura mussoliniana, non ultimo quello della sostanziale responsabilità di aver elaborato (sul modello nazista) una legislazione razziale ai danni della popolazione di religione ebraica nei fatti già applicata altrove e per altre popolazioni in modo “spontaneo” durante le cosiddette imprese coloniali che precedettero il 1938.   

Quali siano state le ragioni di un simile deprecabile sviluppo l’ha chiarito qualche anno fa in modo esaustivo uno storico svizzero, Aram Mattioli, autore di un libro adesso fortunatamente disponibile anche in traduzione italiana (Viva Mussolini. La guerra della memoria nell’Italia di Berlusconi, Bossi e Fini, Garzanti 2011). Si prova un salutare malessere a leggere quelle pagine. Tornano in mente le parole di Piero Calamandrei stampate nell’ottobre del 1946 sulla rivista “Il Ponte”: “Il ventennio fascista non fu, come oggi qualche sciagurato immemore figura di credere, un ventennio di ordine e di grandezza nazionale: fu un ventennio di sconcio illegalismo, di soffocazione quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione civile”. La sensibilità per quello sconcio illegalismo, per quella soffocazione quotidiana e per quella sorda e sotterranea disgregazione civile si è purtroppo molto indebolita, negli ultimi tempi, finendo per moltiplicare il numero degli “sciagurati immemori”. Ancora una volta bisogna chiedere: com’è potuto accadere? E si tratterà di trovare una risposta convincente, prima che la lotta contro questo tipo di oblio venga definitivamente condannata al fallimento.

Se il libro di Mattioli ha il merito di squarciare il recente velo dell’ipocrisia conciliatrice steso sulla nostra particolare maniera di puntare alla creazione di memorie condivise (in realtà, come abbiamo visto, contrassegnate da colpevoli dimenticanze), è importante almeno alludere anche ad altre considerazioni e ad altri studi intrapresi per cercare di rendere più trasparenti i processi stessi con i quali si è sedimentato quello spesso strato mistificatorio. Un recente articolo pubblicato sul settimanale tedesco “Der Spiegel” ha per esempio riferito di un ritrovamento di alcuni documenti, fatto dallo storico tedesco Felix Bohr nell’Archivio del Ministero degli Esteri di Berlino, dai quali si evince che alla fine degli anni cinquanta il governo italiano e quello germanico si accordarono affinché venissero cessate le ricerche volte a reperire tutti i responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. “Tra le motivazioni che portarono il governo italiano a scegliere questa strada – ha scritto Marco Clementi in un articolo pubblicato sull’ultimo domenicale del Corriere della Sera –, troviamo il timore che insistere per processare i tedeschi responsabili della strage avrebbe potuto ridare forza alle richieste d’estradizione di presunti criminali italiani presentate da Jugoslavia, Eritrea, Albania e Grecia alla fine della Seconda guerra mondiale”. C’è da chiedersi a quale prezzo operazioni del genere possano essere state compiute dal punto di vista di una seria (e questo significa sempre anche seriamente autocritica) rielaborazione del passato. In questo senso colpisce in modo positivo come alcuni intellettuali contemporanei (soprattutto in Germania o in Austria) non tralascino ormai di denunciare anche il passato oscuro di figure altrimenti apprezzabili perché comunque capaci di rigenerarsi dopo un periodo più o meno lungo di connivenza con i vecchi regimi totalitari. È questo il caso della scrittrice Sabine Gruber, la quale ha composto per il settimanale “ff” una “Würdigung” del famoso autore sudtirolese Franz Tumler in occasione del centenario della sua nascita, senza però tacerne (anzi investigandone ed esponendone tutte le tracce) gli aspetti che ce lo rivelano come convinto nazista fino alla caduta del regime di Hitler.

Scriveva ancora Calamandrei: “Ciò che ci turba non è il veder circolare di nuovo per le piazze queste facce note: il pericolo non è lì; non saranno i vecchi fascisti che rifaranno il fascismo. Che tornino in libertà i torturatori e collaborazionisti e i razziatori può essere una incresciosa necessità di pacificazione che non cancella il disgusto: talvolta il perdono è una forma superiore di disprezzo. No, il pericolo non è in loro: è negli altri, è in noi: in questa facilità di oblio, in questo rifiuto di trarre le conseguenze logiche della esperienza sofferta, in questo riattaccarsi con pigra nostalgia alle comode e cieche viltà del passato”. Parole per nulla sbiadite dal tempo e da recitare a voce alta nel “giorno della memoria”.


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