Se l’epistemologia diventa anarchica

Creato il 28 gennaio 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

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di Michele Marsonet. Le autobiografie dei filosofi hanno, di solito, intenti autocelebrativi. Ciò che interessa a chi le scrive è lasciare ai posteri una testimonianza del proprio lavoro, affinché le idee maturate nel corso di una vita possano vincere lo scorrere inesorabile del tempo. Così non poteva essere, ovviamente, per Paul Feyerabend, uno dei più celebri filosofi della scienza contemporanei. Il sorriso beffardo e dissacratore di Feyerabend è stato un elemento costante del panorama filosofico nella seconda metà del secolo scorso, e l’ironia che egli esercitava anche nei confronti di se stesso emerge da ogni pagina del suo libro autobiografico “Ammazzando il tempo” (Laterza editore). Feyerabend la scrisse negli ultimi mesi di vita (1994), e cioé quando, ammalato di cancro, si rese conto che non poteva realizzare altri progetti più impegnativi. Non si tratta, tuttavia, di un’opera “minore”, ed è anzi certo che gli studiosi che intendono tracciare un bilancio del suo pensiero devono analizzarla attentamente.

E’ allora essenziale rilevare che questo fatto costituisce una puntuale conferma di un’intuizione fondamentale dell’autore: filosofia e vita sono intimamente legate, e un pensiero tanto più è importante quanto più sa cogliere nella loro dinamicità i vari aspetti del nostro modo di vivere e i problemi concreti che da essi scaturiscono. Come già per Wittgenstein, compito del filosofo non è aggiungere altri problemi ai tanti che sorgono nella vita quotidiana, bensì cercare di risolvere questi ultimi mediante una paziente opera di dissolvimento concettuale: se si può mostrare che molte questioni filosofiche non hanno ragione di essere poste, allora avremo dato un aiuto concreto non solo agli specialisti, ma anche alle persone comuni. Nelle pagine di questa autobiografia troviamo un’autoanalisi ininterrotta che parte dalla prima giovinezza. Feyerabend cerca, innanzitutto, di comprendere se stesso, e a volte si ha l’impressione che l’io narrante veda l’io oggetto della narrazione come un perfetto estraneo. Nato a Vienna, nel 1938 diventò cittadino del Reich dopo l’annessione nazista dell’Austria, e prestò servizio nell’esercito tedesco su vari fronti di guerra. Confessa candidamente di non aver compreso, in quegli anni, la vera natura del nazismo; i discorsi di Hitler alla radio e le persecuzioni razziali sono circondati da una sorta di nebbia che sfuma i contorni degli avvenimenti. Il filosofo fornisce un “perché” solo a posteriori, quando il flusso stesso della vita determina un risveglio della sua coscienza.

Feyerabend concordava con un famoso detto di Ernst Bloch: “La filosofia si è degradata da vessillifero della scienza a suo fanalino di coda”. Divenuto allievo di Popper agli inizi degli anni ’50, l’incontro con il falsificazionismo gli fece da un lato compiere un salto di qualità, mentre dall’altro sviluppò ancor più le sue doti creative. Tuttavia il rapporto con Popper diventò ben presto burrascoso, e non sono pochi gli strali contro la  “chiesa popperiana” contenuti nelle pagine del libro. Ed è questa, forse, l’unica nota un po’ stonata dell’autobiografia. Un rapporto maestro-allievo può anche deteriorarsi per motivi scientifici o personali, ma non dovrebbe mai condurre all’irrisione. Ciò è vero soprattutto in questo caso, dal momento che lo stesso Feyerabend riconosce a Popper il merito di avergli aperto la via della carriera accademica.

I motivi che determinarono il suo distacco dalla scuola popperiana sono, in fondo, gli stessi che spiegano la critica corrosiva del neopositivismo: l’astrattezza e la presunzione che i filosofi possano dettare agli scienziati le regole del metodo. Il verificazionismo neopositivista da un lato, e il falsificazionismo popperiano dall’altro appaiono a Feyerabend come due lati della stessa medaglia. Entrambi non hanno alcun punto di contatto con la realtà, ossia, nel caso di una filosofia della scienza, con la pratica scientifica. Questo è il significato vero del celebre “anarchismo metodologico” da lui proposto. Poiché la scienza non è (né mai è stata) un sistema statico, ma un processo dinamico che punta a risolvere problemi sempre nuovi, essa non può avere un metodo unico e fissato una volta per tutte che consenta di raggiungere i risultati voluti seguendo regole standard.

“La scienza” – scrive – “non è l’unica via per acquisire la conoscenza, ci sono alternative che possono riuscire laddove la scienza ha fallito. C’è l’intero campo dei fenomeni parapsicologici, che è interessante ai fini di questo dibattito per due motivi. Da un lato molti fenomeni descritti o presupposti dai miti sono di natura parapsicologica. Lo studio della parapsicologia, quindi, ci fornisce il materiale per una realistica (cioé non fittizia) interpretazione di miti, leggende, favole e racconti simili”. Aggiungendo inoltre: “Essere filosofo o significa che ci si avvicina alle cose in quanto si è membri di un club, o è un’espressione vuota che può essere applicata a qualsiasi individuo, persino a un cane. Dichiaro volentieri di essere filosofo nel secondo senso, ma certamente non lo sono nel primo”.

Rispetto a Popper e altri autori, ha insomma compiuto un’operazione che sarebbe risultata impensabile in precedenza: quella cioé di attaccare (negandola) la razionalità scientifica partendo proprio da basi epistemologiche. Con lui la filosofia della scienza “esplode”, per così dire, dall’interno, sino a trasformarsi in qualcosa di indefinito e difficilmente catalogabile sia in termini filosofici che scientifici. Come ho prima osservato, Feyerabend nega l’esistenza un metodo scientifico standard in grado di farci pervenire in modo sicuro ai risultati desiderati (e su questo punto aveva almeno in parte ragione). Di qui il suo celebre anarchismo epistemologico condensato nello slogan “anything goes” (“tutto va bene”), intendendo con ciò che qualsiasi procedura è ammissibile se è in grado di farci conseguire i risultati che ci siamo prefissi.

Come riconobbe lo stesso Albert Einstein, le regole variano contestualmente, anche perché nessun criterio prefissato è in grado di assistere lo scienziato che formula una nuova teoria rovesciando gli schemi adottati dai suoi predecessori. Feyerabend ha spesso dato l’impressione di intendere il suo anarchismo quale premessa di un relativismo assoluto. A mio avviso, tuttavia, è più utile considerarlo come riconoscimento del carattere a un tempo “pratico” e “creativo” del lavoro scientifico.

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