Con debordante invadenza il presidente della Bundesbank non ha aspettato i risultati delle elezioni in Grecia per sentenziare su ciò che il nuovo governo di Atene avrebbe dovuto fare o non fare. Gli sono bastati i primi "exit poll", che indicavano il successo di Alexis Tsipras, per precipitarsi a dichiarare che gli impegni sul debito greco andavano rispettati così come sono, punto e basta. Un governatore di banca centrale che mette così platealmente le mani nel piatto politico di un altro paese già offre uno spettacolo sgradevole. Ma non è neppure questo l'aspetto più preoccupante delle ormai continue sortite di Herr Jens Weidmann contro chiunque voglia mettere in discussione l'austero verbo contabile della sua banca.
Poiché costui sarà irruento ma non è certo uno sprovveduto, è del tutto evidente che i veri destinatari della sua intemerata non erano e non sono i nuovi governanti di Atene. In realtà è ben più logico pensare che gli interlocutori cui intendeva rivolgersi il capo della Bundesbank siano innanzi tutto l'opinione pubblica e il governo tedeschi da un lato e poi anche la Commissione di Bruxelles e i vertici della Banca centrale europea dall'altro. Al fine di rassicurare gli uni sulla fermezza dei suoi propositi rigoristi e di condizionare gli altri nei negoziati che si apriranno con la Grecia.
Occorre ricordare che la svolta politica ad Atene è arrivata appena tre giorni dopo una ben più significativa svolta di strategia monetaria da parte della Bce, voluta e ottenuta da Mario Draghi anche contro l'opinione di Herr Weidmann. Una sconfitta che quest'ultimo ha mal digerito perché, sebbene sia riuscito a far contenere nella misura del 20 per cento la garanzia comune sugli acquisti di titoli decisi dalla Bce, questa scelta comporta una rilevante novità di principio. Quel pur piccolo 20 per cento è un chiodo piantato nel muro della resistenza della Bundesbank contro l'idea stessa di arrivare a una gestione più mutualistica dei debiti europei.
Ciò spiega perché Herr Weidmann sia piuttosto nervoso e, sentendosi pressato sul terreno economico, abbia deciso di buttarla in politica rilanciando un argomento che già ha largo seguito sulla stampa e nell'opinione pubblica tedesche. Si tratta dell'antico "Pacta sunt servanda" per cui tutti i paesi che hanno ratificato i trattati sulla moneta unica non possono che attenersi alle regole a suo tempo sottoscritte. A prima vista l'argomento suona inoppugnabile: gli impegni si rispettano, punto e basta. La storia, tuttavia, insegna che anche per i trattati vale il principio darwiniano che coniuga la sopravvivenza con la capacità di adattamento ai mutamenti dell'ambiente. A maggior ragione poi se le regole scritte pretendono di ingabbiare una realtà per sua natura particolarmente variabile, elastica e incostante come quella delle attività economiche in un mercato globalizzato.
È non poco allarmante che il presidente della Bundesbank stia facendo il possibile e l'impossibile per rafforzare nell'opinione pubblica tedesca - tenendo così sotto scacco anche il governo di Berlino - la convinzione che le regole dell'unione monetaria debbano essere immutabili. Dietro questo atteggiamento si coglie il pessimo segnale di una Bundesbank che non guarda oltre i confini del proprio paese e rifiuta di considerare l'euro come uno strumento essenziale per un'effettiva integrazione europea. Cosicché le conseguenze politiche dell'azione di Herr Weidmann rischiano di essere ben più pesanti di quelle economiche.
Da Schmidt a Kohl la Germania aveva dato la forte impressione di voler svolgere quel ruolo di federatore degli stati del vecchio continente che le spetta in forza del suo primato geo-economico. Oggi, sotto la pressione di una Bundesbank che alimenta i sentimenti più chiusi di un'opinione pubblica sempre più indifferente al progetto europeo, la politica di Berlino rischia di scivolare a ritroso nella tentazione di usare la sua forza non per guidare l'Europa ma per dominarla. La via più sicura per gettare alle ortiche il sogno unitario.
(di Massimo Riva - l'Espresso)
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