Ieri su queste pagine Luca Ferrari (posso ormai chiamarlo “il mio dirimpettaio”) esprimeva il proprio scetticismo verso “le vocazioni” di un territorio. Perché? Per il fatto che «non è detto che torrone e violini siano così profondamente insiti nel DNA di Cremona». In effetti, e senza calcare un terreno che conosco solo superficialmente (quello dei violini), già l’origine del dolce che ogni autunno torna ad allietare le nostre tavole è avvolta nel mistero: c’è chi vuole farla risalire agli arabi (ritenendola quindi una variazione della famosa “cubbaita” o “giuggiolena”, dolce arabo fatto di miele e sesamo – “Turròn” è un termine spagnolo alquanto discusso e secondo le tesi degli studiosi iberici il torrone sarebbe ad ogni modo di derivazione araba); altri parlano addirittura di un dolce simile già in uso nella Roma antica, una descrizione del quale si può leggere nel De re coquinaria dal grande gourmet Marco Gavio Apicio (facendo così derivare una possibile etimologia del nome, più che da improbabili torri rinascimentali, dal verbo latino torreo che significa “seccare”). Quale che sia la sua origine comunque, aumenta il numero degli studiosi che non la ritengono una ricetta tipica dei pasticceri quattrocenteschi cremonesi, ai quali, casomai, va il merito di avergli impresso, in occasione delle nozze tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, la forma della torre medievale campanaria più alta d’Italia.
Ciò nonostante, Violini e Torrone nativi o naturalizzati, entrambi sarebbero ugualmente e legalmente cittadini cremonesi. Scegliete: meglio raccontare di essere compatrioti di uno Stradivari o di Jane Alquati? Insomma, sono parte importante della storia e della cultura della nostra città (anche se, in effetti, pare poco credibile che siano stati inventati qui).
Contestualmente credo però, questo sì, che non debbano valere come unica proposta, unitamente ai “tesori” malconservati e male esposti di uno spento e apatico complesso civico museale. E qui entra in gioco il secondo punto toccato da Ferrari: la rielaborazione (o, qualora rappresentino «emblemi vuoti e senza significato) la sostituzione delle tradizioni che non sono più radicate. Chi pretende di avere una visione della cultura a Cremona, come da qualsiasi altra parte, non potrà più rivolgersi solamente a quella che l’estabilishment ha per anni somministrato come “tradizione”, ma dovrà stare con lo sguardo rivolto sia indietro che avanti. Guardare indietro, verso la tradizione: quella alla quale appartengono, come ha ricordato giustamente Ferrari, non soltanto torrone e violini, ma anche i canti del lavoro, la storia cooperativa (pensiamo a un personaggio come Guido Miglioli) o le riviste umoristiche ottocentesche (la cui polifonica biodiversità di voci non è più tornata dopo gli anni Venti e Trenta – un grave vuoto che la “cultura” propugnata da generazioni di amministratori non si è mai preoccupata di colmare); ma anche avanti, verso i nuovi fermenti ed i segni, tutti quegli “infiniti segni” affioranti dal terreno, dispersi ancora in tanti rivoli ciascuno per proprio conto e non rispecchiati in un quadro comune.
Ora: cosa c’è “avanti”? Ricordavo qualche giorno fa su queste pagine che basta curiosare fra locandine e flyers sulle mensole e sui banconi di parecchi esercizi pubblici cittadini per rendersi conto della polifonia di nuove proposte che emerge da un sottobosco in continuo movimento (da sempre esistito ma per troppo tempo misconosciuto), che ha visto molti dei propri virgulti dover migrare altrove per realizzare i propri progetti o le proprie idee (o, nel peggiore dei casi, ad abbandonarle), magari solamente perché rifiutavano la copertina delle attività “giovanili” del comune e per questo venivano accuratamente esclusi perché destabilizzanti per l’estabilishment.
Qualcuno potrà obbiettare che i violini o il torrone o le opere della pinacoteca o le rappresentazioni al Ponchielli superano di gran lunga, per interesse e “spessore”, le multiformi manifestazioni dell’avanguardia underground, dalle più recenti frontiere della musica elettronica all’areosol-art, agli oggetti-narrativi-non-identificati delle ultime generazioni di scrittori. Il fatto è che negare un pregresso “underground” a qualsiasi “tradizione” è come pretendere che l’uomo sia nato già bell’e pronto com’è adesso. Ma la storia (non solo quella dell’estetica) ci insegna che il raggiungimento di una forma classica (e quindi, in qualche modo, istituzionalizzata) è sempre stata preceduta (e credo sempre sarà) da un “underground”: ovvero, è il risultato di un processo, un processo di cristallizzazione di temi, oggetti e forme che emergono per partenogenesi alla superficie di un substrato profondo e in perenne in movimento. In un brano delle “Conversazioni con Goethe” di Johann Joachim Eckermann, l’autore chiede al grande artista tedesco in che modo le immagini estreme della nuova rivoluzione estetica romantica, potranno giovare agli ingegni ed all’arte, quando “in luogo della leggiadra materia della mitologia greca cominciano ad entrare streghe, diavoli e vampiri; e i sublimi eroi di un tempo devono far posto a birbanti e galeotti”. E Goethe da una risposta la cui intelligenza decide la qualità dell’intellettuale che ragiona guardando contemporaneamente al passato ed al futuro della cultura: «Gli estremi e le esagerazioni – replica Goethe – svaniranno a poco a poco e da ultimo rimarrà il grandissimo vantaggio che, accanto ad una forma più libera, si sarà raggiunto anche un più vario e più ricco contenuto, o non sarà più escluso come antipoetico nessun oggetto del più vasto mondo e della vita più varia». Ovvero, a beneficiare della nuova “orgia aberrante” portata dallo sturm und drang della nuova iconologia romantica, presto sarebbe stata la cultura stessa: il suo territorio si sarebbe aperto nuove frontiere dai più vasti orizzonti entro i quali avrebbe trovato cittadinanza ciò che prima era espressione del non-poetico. L’acqua limacciosa straripata dal fiume in piena sarebbe stata assorbita lentamente dal terreno andando a far da nutrimento per un nuovo assetto colturale e culturale.
Questo, credo, è ciò che sta dietro a quel che Ferrari chiama costruzione di senso. Per dirla con Paul Valery: «ogni classicismo presuppone un romanticismo anteriore». Ad ogni sconfitta del cristallo dell’ordine già costituito, la posta viene rilanciata riorganizzando i pezzi sparsi in un nuovo ordine, inglobando nuovi stimoli esterni. E la battaglia consiste sempre nell’alchimia di solidificare un ordine, una linea di percorso che faccia chimica e cristallizzi, lasciando però sempre un punto di lasco, una maglia rotta che ridà fiato al caos e alla libera evoluzione e disponibilità dei possibili. Oggigiorno la crystallisation di forme ed emblemi della nostra tradizione ha raggiunto il suo capolinea e occorre rilanciare la posta, costruendo un nuovo ordine, un nuovo punto di vista, che non sarà calato dall’alto, secondo uno schema già ossificato ma, accoppiando l’officina e l’accademia, si aggrumerà dai bassifondi, dal ribollire entropico della materia, tessendo i vari fili che affiorano dal terreno. Oppure la rinuncia all’unificazione si pagherà cara, e spero che soprattutto gli amministratori leggano attentamente: si pagherà da un lato con la rinuncia a collegare conoscenza e valore, e quindi con la separazione fra verità e comportamento individuale e collettivo; dall’altro si pagherà con una “cultura” sterile, tautologica e deterministica, dove sarà inibita ogni creazione di novità.
Se si vuole ragionare di cultura non si deve dimenticare che il discorso comincia da qui. La formula dell’ Hic sunt leonestrova il suo capovolgimento quasi carnevalesco nella cultura, che non è un entità ferma e con confini ben definiti bensì un fronte in continuo movimento che sposta continuamente le proprie barriere. Perciò, territori al sicuro non ne esistono: la cultura (anche quella cremonese), se si vuol salvare, è e deve rimanere terreno di lotta.
Michele Scolari
0.000000 0.000000