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Se la Francia fa come la Germania

Creato il 25 settembre 2014 da Keynesblog @keynesblog

hollande

di Bruno Amable, professore di Scienze economiche, Università la Sorbona

François Hollande non perde occasione per ricordare che, in fatto di politica economica, è a Gerard Schröder che vuole ispirarsi. Esprime a ogni pie’ sospinto la sua ammirazione per le cosiddette “scelte coraggiose” e le “importanti riforme” fatte dal cancelliere compagno dei padroni. Lo dice in Germania, ogni volta che l’SPD lo invita ai suoi congressi (ed è un po’ come se parlasse di corde in casa dell’impiccato, tanto i socialdemocratici le hanno mal digerite, quelle riforme); lo dice in Francia, come nella sua ultima conferenza stampa.

È diventato quasi un ritornello, ripetuto in coro dai dirigenti del Partito Socialista e dal Medef [la Confindustria francese, ndt]: negli anni 2000, la Germania ha flessibilizzato il mercato del lavoro con le riforme Hartz; su queste si è formato un consenso e in definitiva hanno funzionato ; la Germania ha oggi un basso tasso di disoccupazione, un bilancio in equilibrio, ed una bilancia commerciale largamente positiva.
La conclusione che se ne trae, ribadita da molti compiaciuti editorialisti, è che bisogna fare come in Germania; le stesse cause devono produrre gli stessi effetti sulle due rive del Reno.

Ci sarebbe molto da ridire su questa sequenza.

In primo luogo, non c’è stato affatto un consenso unanime sulle riforme Hartz. La loro applicazione si è svolta, al contrario, in un clima di conflitto: isolamento dei sindacati, scissione nell’SPD, ecc. I socialdemocratici ne pagano ancor oggi le conseguenze politiche. La deriva verso destra ha ridotto il partito a membro cadetto di una coalizione guidata da conservatori. E non è escluso, in fondo, che l’SPD si debba riposizionare a sinistra, se ambisce ritornare forza autonoma di governo.

Inoltre, contrariamente all’esegesi corrente, in Germania non si è prodotta una flessibilizzazione generalizzata del mercato del lavoro (che avrebbe fatto sparire i contratti a tempo indeterminato o indebolito le loro tutele). Sarebbe vero quasi il contrario, secondo quanto afferma l’OCSE, i cui indicatori mostrano che i contratti a tempo indeterminato sono meglio protetti in Germania che in Francia. Sempre l’OCSE rileva che il livello di tutela dei contratti a tempo indeterminato è più basso in Spagna, dove la disoccupazione è dell’ordine del 25%.
Vediamo di ricordarcene, la prossima volta che il padronato promette milioni di posti di lavoro in cambio della distruzione del Code du Travail [statuto dei lavoratori francese, ndt].

C’è stata sì più flessibilità con le riforme Hartz, ma questa flessibilità si è fatta soprattutto sui salari più fragili, sui dipendenti di più di 45 anni, e con i contratti lavoro atipici (interim, part time, ecc.). I contributi di disoccupazione sono stati drasticamente ridotti per i disoccupati di lungo termine: condizioni più restrittive per accedervi, riduzione del periodo di tutela, obblighi più stringenti ad accettare un posto di lavoro, etc. Il tasso di occupazione dei lavoratori con più di 55 anni è aumentato in maniera abbastanza vistosa, ma sono anche aumentate le forme di lavoro atipico, le disuguaglianze sociali ed il rischio di povertà.
D’altra parte, uno degli obiettivi di queste riforme era la riduzione, diretta o indiretta, del costo del lavoro. Era quindi un obiettivo deflazionista. Ci era sembrato di capire che la deflazione fosse il pericolo numero uno da evitare a tutti i costi.

Per finire, il “miracolo dell’occupazione” non è dovuto tanto alle famose riforme ma piuttosto alla potenza idustriale tedesca. In termini di evoluzione dell’occupazione, le differenze tra la Germania e gli altri paesi europei cominciano a farsi significative soprattutto dopo il 2008. La crescita alimentata dalle esportazioni deve ben poco agli impieghi precari e mal pagati, il cui sviluppo è stato incoraggiato dalle sedicenti “riforme coraggiose”. La moderazione salariale ha certo giocato un ruolo, ma i punti di forza tradizionali dell’industria tedesca (specializzazione settoriale, qualità dei prodotti) hanno giocato di più.

Alla luce di questi elementi, si può forse meglio leggere la scelta di espellere Arnaud Montebourg dal governo, presentata come un “chiarimento” di linea politica. Non che l’ex ministro facesse una politica antipadronale, come ha mostrato il suo entusiasmo per il “rapporto Gallois” [documento governativo stilato dal commissario generale agli investimenti Louis Gallois, che prevedeva di rendere più flessibili i salari e trasferire i contributi aziendali dalla protezione sociale a nuovi crediti alle imprese, ndr]. Ma almeno cercava di favorire un padronato industriale e orientato allo ‘sviluppo’.

Il “chiarimento” che si delinea è piuttosto sugli effetti futuri delle scelte di governo di Valls: subiremo gli aspetti socialmente più regressivi delle esperienze politiche degli altri paesi, senza nemmeno guadagnarci qualcosa –molto probabilmente- in termini di efficacia economica.

pubblicato con il titolo “Dimenticare Schroeder” da Liberation del 22 settembre 2014

traduzione: Faber Fabris


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