Evviva, è arrivata la democrazia nell’antica terra dei Faraoni, esultano gli ipocriti e gli ingenui, a partire dall’Occidente. La Primavera araba ha vinto!
Ma neanche per sogno ha vinto!
Dato che la condizione della donna è la fondamentale cartina tornasole del livello di libertà di uno Stato, basta osservare la nuova first lady egiziana Naglaa Mahmoud, per accorgersi dell’involuzione che sta subendo il paese a livello sociale (involuzione peraltro già iniziata sotto Sadat, anch’egli legato ai Fratelli musulmani).
Dimentichiamo innanzitutto le consorti all’occidentale, vestite dei precedenti presidenti egiziani e anche la stessa Suzanne Mubarak, cacciata con il marito Hosni solo l’11 febbraio dello scorso anno; dimentichiamo a maggior ragione lo sfarzo degli abiti delle regine d’Egitto prima del colpo di Stato di Naguib e Nasser nel 1952.
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Naglaa Mahmoud indossa il khimar (v. foto), un tipo di velo che lascia scoperto solo il viso e arriva fino al petto: sarà la prima donna a sventolare tale “bandiera” nel palazzo presidenziale del Cairo.
Non è per giudicare una persona dal vestito che indossa, come accusano gli apologeti del velo, ma è chiaro che — come afferma il blogger egiziano Mahmoud Salem ( Sandmonkey) — il modo di presentarsi “di una first lady è il simbolo del paese”. E molto si può dire per dimostrare che il velo è di fatto un simbolo di assoggettamento della donna musulmana al maschio.
Inoltre, se una donna lo indossa “per libera scelta” come sembra faccia la stessa Naglaa, questo è indice di ciò che essa ha anche nella testa.
Sembra un pregevole atto di umiltà da parte di questa robusta cinquantenne il rifiuto di essere chiamata “prima donna d’Egitto” (sebbene durante la campagna elettorale sia stata l’unica moglie di un candidato a presentarsi in pubblico, anche perché quella di Ahmed Shafiq, all’occidentale vestita, è scomparsa a fine aprile, dopo l’annuncio della candidatura del marito).
Peccato che Naglaa Mahmoud sostenga che la consorte del presidente egiziano, non solo non debba avere un proprio ruolo politico, ma nemmeno sociale (come invece lo aveva Suzanne Mubarak, molto attiva nella campagna contro le mutilazioni genitali femminili).
Naglaa ricorda che “l’islam ci insegna che le guide del popolo sono i loro servi, come una moglie” (come una moglie cosa? Come una moglie è serva del marito?). “Lei (la consorte) deve aiutare il marito come lui serve la gente”, afferma. Non a caso si definisce “khadimat al-Masr”: “serva dell’Egitto”.
Ma l’Egitto ora è suo marito, Mohamed Morsi. È lui che la ex traduttrice — che ha vissuto i primi anni di nozze negli USA, facendo nascere lì i suoi due figli (che quindi sono anche cittadini americani) — s’impegna a servire.
Lui e naturalmente il “progetto per l’Egitto” dei Fratelli musulmani: “un sistema in cui la sanità, l’educazione, gli investimenti e l’economia si svilupperanno per il bene del paese”, spiega convinta. Peccato che in cambio di ciò i Fratelli musulmani vogliano imporre un maggior ruolo nella società della sharia, la legge islamica. Anche Naglaa, la “serva dell’Egitto”, lo vuole.