Vi proponiamo sul nostro sito un nuovo saggio di Gianfranco La Grassa, Se Marx è economicista…, che è un altro passo dello studioso veneto nella teoria marxiana, al fine di evidenziarne meriti ed errori ma, soprattutto, per salvaguardarla da quelle incomprensioni provocate da suoi interpreti improvvisati i quali hanno stravolto i principi del suo nucleo scientifico, facendo passare appunto il pensatore tedesco per economista o per filosofo, a seconda delle esigenze ma non della obiettività. Il concetto principale intorno a cui ruota il ragionamento di La Grassa è che per Marx al centro (e alla base) della società c’è una struttura di rapporti sociali determinati storicamente dai quali deriva una specifica formazione economica. Per questo il sistema del capitale non è mai semplicemente un modo di produrre cose ma è innanzitutto una costruzione sociale estremamente dinamica dove si riproducono i rapporti entro cui avviene la produzione e la distribuzione degli oggetti (trasformati) ai fini della vita associata. Il capitale, insomma, è “una ‘storicamente determinata’ formazione sociale, con un suo peculiare modo di produzione, che non significa modalità tecnico-organizzative del processo trasformativo degli oggetti in forma usabile per soddisfare bisogni. Il modo di produrre è sociale; si produce solo riproducendo contestualmente i rapporti sociali nel cui ambito si produce”. Quindi l’accento dell’esplicitazione marxiana va messo innanzitutto sulla riproduzione del rapporto capitalistico ovvero su quel rapporto sociale che è il capitale, poi sul pluslavoro nella forma del plusvalore e quindi sulla merce. E questo nonostante i sensi invertano l’ordine delle situazioni. Gli economisti dominanti hanno un bel dire che quello del capitale è un sistema naturale laddove “le forme sociali in cui [si] produce e che appaiono rapporti dati, naturali, sono il costante prodotto – e solo per questo il costante presupposto – di questo modo di produzione specificamente sociale” (K. Marx, Teorie sul plusvalore). Dunque, sostiene La Grassa, benché l’economica ufficiale prenda come modello di questa naturalità il Robinson Crusoè – il quale con una mentalità capitalisticamente già formata, porta semplicemente sull’isola deserta un bagaglio di esperienze pre-acquisite nella sua vita precedente, non trovandole appese sugli alberi come vorrebbero farci credere – il suo corretto riferimento dovrebbe essere Tarzan: “Sarebbe stato veramente interessante vedere come se la sarebbero cavata Walras o Marshall o Böhm-Bawerk, ecc. alle prese con Tarzan, in cui non vi è il ‘primato della domanda’. I suoi ‘calcoli’ sono basati sull’uso spiccio del coltello, sulle estenuanti attese per gli agguati, sui plurikilometrici e quatti pedinamenti controvento per non far sentire il suo odore di animale, sulla sua lunghissima e prudente attesa del declino (per vecchiaia) della tigre, che da giovane lo aveva quasi ucciso. E quando essa è divenuta meno agile e un po’ torpida, riesce infine a sopprimerla (anche con un po’ di fortuna); allora esplode il suo orgoglio nella certezza d’essere divenuto la ‘prima potenza’ della foresta. Dov’è il ‘primato del consumatore’ del micragnoso e gretto Robinson? In Tarzan, effettivamente, la forza e l’astuzia, l’inganno e l’ambizione, espressi nella forma più pura dell’animale, precedono ogni possibile forma mercantile. Non è lo scambio che determina la preminenza. Lo si potrebbe mostrare pure con altri passi del libro, quando sbarcano dalla nave i marinai ‘cattivi’, ma questo basti”.
Buona lettura.
G.P.