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Se noi giochiamo, la coppa vale

Creato il 17 novembre 2015 da Calcioromantico @CalcioRomantico

Alla fine è come avere la conferma che non si può sfuggire al dolore di quella notte passata sul divano di casa mia in attesa che tutto finisse, mentre la TV continuava a trasmettere da Bruxelles immagini insensate che nulla avevano a che vedere con quelle che una vittoriosa finale di Coppa dei Campioni avrebbe dovuto regalare a un ragazzino di dieci anni.
2015 belgio-italia-3-1Il 13 novembre 2015, a trenta anni da quella tragedia, l’amichevole Belgio-Italia giocata allo stadio Re Baldovino -il nuovo nome dell’Heysel dopo il rifacimento- doveva aiutare a storicizzare quanto avvenuto il 29 maggio 1985, un po’ come il quarto di finale di Champions League giocato dalla Juventus ad Anfield Road nel 2005. La voce rotta dalla commozione di Giovanni Trapattoni, per l’occasione commentatore Rai, era un bel ponte tra l’Heysel di una volta e il Re Baldovino di oggi. Poi, al termine della partita le notizie provenienti da Parigi, gli attentati, i morti, la gente che dalle tribune allo Stade de France si riversava in campo mi hanno riportato indietro di nuovo di trenta anni, ad altra gente che in situazione diversa, ma con la stessa paura aveva invaso un campo da gioco.
Magari non sarà in linea con le analisi e gli articoli diacronici che in altre situazioni avrei deciso di proporre, forse qualcuno lo troverà fuori luogo, ma voglio ricordare i morti di Parigi forzando il blocco che mi impediva di raccontare delle emozioni e delle impressioni che la terribile notte dell’Heysel mi ha lasciato.

La frase chiave, all’origine di tutte le speculazioni future, è quella che il presidente bianconero Boniperti dice nella pancia dello stadio alle autorità belga che hanno deciso che far giocare la partita è più sicuro che far sfollare i tifosi rimasti nello stadio: se ci state chiedendo di giocare, noi giochiamo, ma la partita deve contare. I dirigenti del Liverpool sono d’accordo e l’UEFA accetta: del resto, se si deve fare della real politik, bisogna farlo fino in fondo.

1985 heysel juventus liverpool
Per questo alle 21:45, a quasi tre ore dall’assalto dei tifosi inglesi che ha portato alla morte di 39 persone, le squadre scendono in campo. La partita si fa proprio su quel terreno di gioco che alle 19 era pieno di tifosi, soprattutto della Juventus, che scappavano dal caos del settore Z, che di lì a poco sarebbe crollato. Pizzul e, grazie a lui, tutti gli spettatori a casa sanno già della reale dimensione della tragedia e della decisione di realpolitik non riescono a venirne a capo. Anche io, ma non ho la forza di andar via e spegnere il televisore.
Scorrono le immagini, Tacconi para, il primo tempo finisce; Boniek scappa e viene messo giù fuori area da Gillespie, ma per l’arbitro Daina è rigore. Boniek alza le braccia, Platini si presenta dal dischetto, spiazza Grobelaar ed esulta anche lui. A fine partita arriva la Coppa dei Campioni e la squadra va sotto la curva, quella “buona” dove gli organizzatori hanno piazzato la maggior parte dei tifosi italiani. Un fotogramma ritrae le Roi Michel senza maglia, mentre petardi e fuochi fanno da cornice alla gioia degli spalti. Basta, adesso non ce la faccio più. Sono ormai le undici e mezza, non c’è niente da festeggiare: questa coppa che doveva cancellare la delusione di Atene di due anni prima, questa coppa cercata con forza a costo di finire sesti in campionato, questa coppa non la sentirò mai mia.

Gioia, paura, dolore, rabbia, le controverse emozioni dipinte sui volti dei protagonisti di quella terribile notte le ritrovo ogni volta che rivedo quelle immagini. C’è però una cosa che quel 29 maggio 1985 mi colpì e non capivo perché. Accadde al terzo minuto del primo tempo, quando il difensore inglese Mark Lawrenson uscì dal campo rabbuiato in volto, quasi in lacrime. Pizzul non fornì spiegazioni per quella sostituzione anticipata e mio padre, vedendo la triste espressione sulla faccia di Lawrenson, pensò che l’inglese non ce l’aveva fatta a reggere l’impatto emotivo e non se la sentiva di giocare mentre intorno c’era l’odore di morte. Forse era la speranza di un attonito telespettatore che almeno uno dei ventidue attori chiamati a giocare non avesse avuto la forza di azzerare tutto e avesse rifiutato di calarsi nella parte. Solo qualche tempo fa ho scoperto che Lawrenson veniva da un infortunio alla spalla e al primo contatto aveva semplicemente intuito che non ce l’avrebbe fatta a continuare.
Allora ho capito che, rimanendo a guardare la TV nell’inutile attesa di un gesto che desse un senso diverso a ciò che stavo vedendo, avevo deciso anche io di calarmi nella parte che quell’assurdo spettacolo mi aveva assegnato. Ed è forse questo quello che non riesco davvero ad accettare.

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